Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo vedi scheda film
Da un po’ di tempo a questa parte nel cinema italiano si è verificato un cambio di prospettiva che al concetto di marginalità, intesa come luogo dell’anima, ne ha visto affiancarsi un altro, svincolato da caratteristiche di tipo esistenziale e più che altro legato alla geografia del territorio e all’occupazione materiale dello spazio fisico. Dalla riscoperta delle aree periferiche, divenute terreno privilegiato per misurare i pro e i contro della condizione umana, alla rivalutazione delle architetture suburbane, passate di colpo da oggetto da nascondere e di cui vergognarsi a cartina di tornasole in base quale valutare il grado di realtà raggiunto dalla messinscena, il fenomeno in questione ha dato vita a una “religione” cinematografica in continua espansione per il numero elevato di titoli a lei dedicati.
Pur facendo storia a sé per la particolarità biografica del suo autore, non c’è dubbio che a favorire il proliferare del nuovo credo abbia contribuito non poco l’uscita di Non essere cattivo, capace più di altri di incidere sull’immaginario di pubblico e addetti ai lavori. Tale premessa risulta doverosa a fronte di un esordio come quello dei fratelli D’Innocenzo (Damiano e Fabio D’Innocenzo), i quali non solo raccontano la borgata romana (siamo nel quartiere di Ponte di Nona), sullo sfondo di quel degrado morale e di quella micro criminalità che erano stati due dei tratti dominanti del paesaggio descritto dal film Caligari, ma mettono anche al centro del loro interesse gli “anni spezzati” di Mirko e Manolo, che, alla pari dei personaggi interpretati da Borghi e Marinelli, assistono impotenti al naufragare della propria amicizia, andata alla deriva sotto i colpi di un indicibile senso di colpa.
Sarebbe però ingiusto parlare del film in termini comparativi poiché La terra dell’abbastanza, pur ragionando sul già visto (anche il tema del contagio, centrale nella vicenda dei due protagonisti era stato già anticipato dall’omonimo lungometraggio di Botrugno e Coluccini), si ritaglia un’autonomia derivata dal fatto di non limitarsi a registrare il microcosmo dei personaggi in chiave neorealista reinterpretandone, invece, anche l’universo, secondo una gamma di varianti che va dalle cromie fotografiche di Paolo Carnera, utilizzate per amplificare determinati stato d’animo, all’astrattezza di certi scorci urbani (forniti dalle poche ma significative vedute in campo lungo), perfetti nel riflettere l’isolamento e l’alienazione vissuti dai personaggi, alle interpretazioni attoriali, capaci di restituire l’esistenza borderline di Mirko e Manolo (gli ottimi Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano) con la spontaneità e la naturalezza degli interpreti di razza. E, se il merito dei giovani autori è quello di tenere desta l’attenzione con una narrazione che non concede pause alla tensione scaturita dall’insorgere del male, senza per questo ricorrere alle forme di spettacolarizzazione tipiche del genere, La terra dell’abbastanza concede qualcosa in termini di sceneggiatura, latitante quando si tratta – nella seconda parte del film – di spiegare lo scarto logico che trasforma il Paradiso in Inferno. Presentato nella sezione “Panorama” del Festival di Berlino, l’esordio dei fratelli D’Innocenzo è di quelli che vale la pena di vedere nel buio della sala.
(pubblicata su taxidrivers.it)
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