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La Marchesa von...

Regia di Eric Rohmer vedi scheda film

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La recensione su La Marchesa von...

di Antisistema
9 stelle

Eric Rohmer è sempre stato un regista che nel cinema ha esplorato la classe borghese con grande accuratezza nei ritratti psicologici e sociali, ma fino a metà degli anni 70' fu un regista la cui fama era prettamente confinata in Francia, riuscendo ad ottenere attenzione e fama internazionale con La Marchesa von... (1976), suo primo film ad uscire nel nostro paese aiutato anche dal gran premio della giuria a Cannes e dal fatto che dalla contemporaneità, il regista decide di declinare la sua analisi in chiave storica, ripescando un racconto di Henrich von Kleist, restando estremamente fedele al testo da cui ripesca il profondo scavo psicologico dei personaggi trasformando i discorsi indirietti in diretti ed intervallando le transizioni temporali con didascalie presi pari pari dalla pagina scritta dello scrittore tedesco del 700'. Rohmer và in Germania e gira un film ambientato nell'Italia settentrionale del 1799 nella città di M (che dovrebbe essere Mantova date le situazioni che avvengono nel film), scegliendo un cast preso da un'unica compagnia teatrale tedesca, tra cui spicca per futura fama Bruno Ganz nel ruolo del conte russo che durante l'assedio e la conquista della cittadella da parte dei suoi uomini, riesce a salvare dallo stupro di alcuni suoi soldati la Marchesa Von O, Giulietta (Edith Clever), la figlia del comandate della città, il quale viene costretto ad arrendersi data la superiorità dell'esercito nemico, ma viene trattato con tutti gli onori e può ricongiungersi con la famiglia, compresa la figlia. Un melodramma storico in costume, con cui Rohmer resta fedele al testo scritto di partenza, conservando il gusto per l'analisi della morale borghese e dei meccanismi sociologici che muovono essa, esacerbati nella pellicola dall'insistenza del conte russo nel chiedere la mano della Marchesa Von O, la quale dopo la morte del precedente marito, ha deciso di condurre il resto della sua vita da vedova e di curare le proprie due figlie. Giulietta scopre con gran stupore di essere incinta, anche se sostiene di non aver in alcun modo avuto alcun rapporto con nessun uomo dopo la morte del marito, mentre sua madre e suo padre visto che non credono al "remake" della vergine Maria, non sopportano lo scandalo e l'onta che può derivare sulla famiglia per questa gravidanza fuori da ogni decenza morale, trattando la figlia come una sgualdrina. 

 

 

E' un film che punta ad un ritratto della condizione femminile del tempo, ponendo una forte critica all'istituto del patriarcato con le sue regole insensibili e rigide, che relegano la donna in un ruolo di purezza eterna che non può sfuggire alla perfezione impostale dal sistema sociale. La Marchesa Von O è pura ed innocente, afferma con forza di non sapere come sia possibile tale gravidanza fuori da ogni logica della natura, ma viene derisa e maltrattata dai suoi stessi genitori i quali non hanno neanche il coraggio più di guardarla in faccia per dirle che in casa loro non è più gradita. La purezza angelica di Gulietta contrasta con quella dela demonio che commise questo atto, eppure spogliando dei connotati morali negativi il gesto compiuto, ci si accorge come alla base del tutto vi sia un sentimento d'amore elegiaco e candido, che finisce con lo smascherare con ironia nera tutti i delemmi dell'ipocrisia borghese contro la quale si staglia titanicamente l'etica innocente quanto veritiera della Marchesa Von O, fermamente convinta di ciò che afferma perchè non ha ricordo alcuno dell'atto, venendo per questo disprezzata e derisa, quando in realtà la giovane donna è superiore moralmente al mondo in cui vive, che sembra tanto ragionevole e luminoso in apparenza, come la fotografia naturale del grande Nestor Almendros, con l'uso delle luci che filtrano dalle finestre della dimora del comandante, quando poi a livello intimo sono schiavi della mentalità della condizione sociale a cui appartengono, rifugiandosi in stanze sempre più immerse nell'oscurità e illuminate appena dalla fioca luce delle candele, simbolo di una ragione che vuole cercare di rivestire l'inspiegabile, in una cornice razionale. 

L'apparato letterario e la struttura teatrale della messa in scena, non soffocano le emozioni dei personaggi, che divampano progressivamente nello sviluppo delle singole sequenze girate tramite lunghi longtake, toccando picchi emozionali di rara intensità nella prova a cui la madre sottopone la figlia, per scoprire l'innocenza o la colpevolezza, giungendo ad uno sfogo catartico di chiara matrice teatrale nell'impostazione scenica, dispiacendo forse che tale meccanismo non abbia egual potenza nelle (poche) scene in esterna, dove l'impostazione da teatro dà troppo la sensazione da palcoscenico "pompato" cinematograficamente e per questo, anche se siamo innanzi ad un piccolo capolavoro, non ce la si sente di metterlo sul livello di Barry Lyndon di Stanley Kubrick (1975), indubbiamente più di ampio respiro e ancora di più superiore. 

 

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