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Perché Bodhi Dharma è partito per l'Oriente?

Regia di Yong-Kyun Bae vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Perché Bodhi Dharma è partito per l'Oriente?

di yume
10 stelle

Film autenticamente zen, capace di esprimere lo spirito di questa antichissima pratica derivata dal buddhismo con il ritmo lento delle immagini, i silenzi, la presa diretta sui suoni della natura, l’inesplicabilità di alcuni passaggi a cui il nostro pensiero razionale e classificatore vuol imporre la sua griglia interpretativa, uscendone sconfitto.

In concorso al Festival di Cannes nella sezione "Un certain regard” e vincitore  del 42° Festival del cinema di Locarno, nel 1992, per la rivista "Sight and Sound", una giuria internazionale di critici ha inserito Dharmaga tongjoguro kan kkadalgun fra i dieci migliori film di tutti i tempi.

Yong-Kyun Bae ha impiegato otto anni per girare questo film.

Iniziò nell' ’’81 con la raccolta dei materiali, la ricerca della location e la sceneggiatura: "Ogni immagine fu descritta nel dettaglio, il minimo movimento di un coltello, l'atmosfera. Tutto fu messo su carta."

Le riprese durarono circa 3 anni, il montaggio un anno e mezzo.

Nacque un film autenticamente zen, capace di esprimere lo spirito di questa antichissima pratica derivata dal buddhismo con il ritmo lento delle immagini, i silenzi, la presa diretta sui suoni della natura, l’inesplicabilità di alcuni passaggi a cui il nostro pensiero razionale e classificatore tenta di imporre la sua griglia interpretativa, uscendone però sconfitto.

Il titolo "Perché Bodhi-Dharma è partito per l’oriente? è un koan, elemento centrale della meditazione zen, enigma che non puo' avere una risposta: “Invano lo descrivi, senza profitto lo ritrai ”.

La domanda nasce dall’apparente incoerenza di Bodhi-Dharma, ventottesimo erede del Buddha Siddhartha Gautama e depositario del dharma (l'ordine dell'universo), un grande maestro che, venendo dall’India, introdusse in Cina nel 526 d.C. il buddhismo chan (variazioni linguistiche: seon in Corea, zen in Giappone), una dottrina dell'illuminazione basata sulla meditazione e tesa al raggiungimento del satoru, “la grande comprensione”, l’intuizione svelante del reale come nulla, smarrimento, nulla di senso, il grande risveglio.

L’enigma del koan del titolo è: per sua stessa ammissione un valore assoluto non c’è, perché dunque Bodhi-Darma è partito per portarci il suo buddhismo?

Si racconta che la risposta di un maestro al monaco suo allievo fu: Chiedilo a quel palo, laggiù.

E il giovane, perplesso: Maestro, non capisco...

- Io meno di te - disse il maestro.

Utile per entrare nel senso di questo particolarissimo film un brano da un’intervista rilasciata dal regista per Milestone Film & Video Release:

Le vicende hanno luogo nei pressi di un eremo dove vive un anziano maestro zen, ma il soggetto fondamentale di quest'opera non è assolutamente lo zen in sé stesso, per quanto l'ambiente zen nel film abbia un ruolo profondamente significativo. Se ho scelto quest'ambientazione è soprattutto perché l'ho trovata di grande bellezza e fascino, oltre che adattissima ad esprimere la mia personale ricerca del senso dell'esistenza. Lo zen non è la teologia di una rivelazione soprannaturale e chiunque cercasse non troverebbe in esso qualcosa che somigli ad un dogma religioso.

Eppure sono persuaso che lo zen possieda una consapevolezza del problema universale dell'umanità che concerne la ricerca della reale natura del sé e l'illuminazione dell'anima. Gli insegnamenti del Buddhismo zen hanno permesso all'Asia orientale di sviluppare la sua specifica cultura e la sua estetica, ma lo zen in seguito ha influenzato profondamente anche molti pensatori occidentali. Se ne trovano evidenti tracce nella filosofia di Martin Heidegger e di altri esistenzialisti, così come nel pensiero di Carl Gustav Jung, nell'arte surrealista e nell'arte contemporanea in ogni sua manifestazione.

Trovo inoltre molto interessante l'affermazione di Erich Fromm la quale sostiene che la via dello zen è in armonia con gli obiettivi della moderna psicoanalisi occidentale, ovvero l'autorealizzazione. Sono convinto che lo zen permetta la scoperta della vera natura delle cose e le fondamenta dell'anima (potremmo dire gli archetipi del sé) attraverso i mezzi della pura intuizione, in contrapposizione con i metodi estremamente razionali degli psicoanalisti.

Questa scoperta diviene possibile nel momento in cui arriviamo a svuotarci completamente da tutti i concetti che affollano la nostra coscienza. In tal modo lo zen appare a volte illogico e irrazionale, sembra sfuggire totalmente alle nostre capacità di comprensione, ma ciò non significa assolutamente che si tratti di puro misticismo. Sebbene spesso ci appaia avere caratteri mistici, è indubitabilmente alla fonte delle profondità dell'ispirazione artistica. [...] Desidererei che gli spettatori vedessero il film senza l'onere di conoscenze pregresse e idee preconcette.

Questo film non parla di Dio ma delle persone che soffrono, prigioniere dei legami creati da nascita e morte. È un film dunque che ci riguarda tutti.

 Protagoniste del film sono le tre età dell’uomo: un vecchio monaco eremita, Hyegok  (Yi Panyong), un giovane monaco tormentato, Kibong  (Sin Wonsop) e un bambino, Haejin (Huang Haejin), orfano allevato dal vecchio.

Brevi apparizioni sono l'abate (Ko Sumyong), la madre cieca di Kibong  (Yun Byeonghui) e il monaco che ha scelto di tornare a vivere nel mondo (Kim Hae-yong).

Siamo in un eremo del monte Chonan, i tre personaggi si muovono in un habitat naturale incontaminato di grande bellezza ma anche, a tratti, inquietante perché pieno di ombre e mistero.

In un tempo senza misura si susseguono esperienze e ricordi, meditazione e addestramento impartito dal vecchio al giovane attraverso i koan, la colpa e il dolore, la morte e la vera libertà ne sono il fulcro.

Quella che scorre è la vita quotidiana con i suoi piccoli gesti, le sue sottili trame sulle quali è inutile chiedere perché e aspettare risposte.

Il buddhismo parte dal problema della sofferenza umana, degli esseri senzienti ostaggi dell’avidia, in  sanscrito “ignoranza”.

Ogni momento del Buddha è intriso di sofferenza, lo scatto intuitivo è capire che non ci sono risposte, il mistero resta, è il nostro rapporto col mistero che cambia e allora la sofferenza si dissolve.

Lo zen è uno strumento del vivere, afferma la saggezza del monaco e la meditazione è uno stato di silenzio interiore: "Tenebre luminosissime, silenzio eloquentissimo".

Il giovane Kibong  ha lasciato la città sferragliante di lamiere e semafori che appare in apertura.

Nell’eremo compirà un percorso molto duro verso il satoru, sottoponendo la carne a pratiche mortificanti del tutto inutili.

La “grande comprensione” può avvenire solo andando oltre il pensiero cosciente, giungendo ad un livello di consapevolezza superiore indicibile con parole e classificazioni.

Solo attraverso la pratica dei koan, guidato dal Maestro, capirà che “non esiste nulla da raggiungere o guadagnare”, perché “anche se pensiamo di stare ottenendo qualcosa, in realtà non c’è nulla da raggiungere.

Ci siamo solo noi, col nostro esistere, con questo sguardo aperto su un mondo che d’improvviso ci è venuto incontro, non ne sappiamo nulla, non abbiamo spiegazioni e questo induce profonda sofferenza.

L’essenza del messaggio è in questa esperienza del koan che porta al risveglio, tornando alle domande fondamentali, quelle del bambino, ( “Da dove vengo? Qual è il significato della vita? Cosa accade quando muoio? Perché esistono tanto odio e violenza? Chi sono io?”) con la consapevolezza che non ci sono risposte.

Non nichilismo, però, “il nichilismo danna, il buddhismo libera ” (Franco Bertossa)

Zen è vacuità e dunque disvelamento della verità,  “quella cosa su cui ogni tanto gli uomini inciampano ma poi si rialzano e proseguono”, secondo il celebre aforisma di Churchill.

Imparare a non proseguire e fermarsi in meditazione. In fondo alla strada c’è il satoru, il grande risveglio nel non sapere. 

Yong-Kyun Bae rende un omaggio poetico ad una scelta di vita che sentiamo fatta propria fino in fondo, nella consapevolezza che  “l’impermanenza e il dolore stanno proprio di fronte ai nostri occhi” .

Non un approdo mistico, non una religione, ma un risveglio nella verità. 

Non capisco, e questo mi accomuna alla sofferenza di tutti nel non capire, dunque posso fare qualcosa per loro”.

Il film termina con la morte del vecchio monaco Hyegok  che assegna una missione al giovane Kibong : "Quando sarò morto ti prenderai cura dei miei resti. Kibong, dovrai portarli nel loro luogo d'origine."

 

 Mentre Kibong percorre con la cassa sulle spalle che contiene le spoglie del Maestro il faticoso sentiero della montagna, il suo pensiero formula parole che un solenne canto funebre accompagna:

Il maestro se n’è andato, io resto.

L’inverno avanza attraverso la fitta foresta

e l’estate avvicina l’estremità dei rami spogli

nel ciclo senza principio né fine,

vivere e morire sono una sola cosa.

Ma la vita è per coloro che restano,

nell’eterna corrente senza fine

non c’è né nascita né morte.

Per coloro che restano la morte

è un problema senza soluzione.

 

Per lunghi minuti arde nella notte il falò dell’incinerazione, l’alba livida si colora del grigio della polvere che resta, Sybong la raccoglie e la sparge sulle foglie degli alberi, nell’acqua, nell’aria.

Echi di antichi strumenti bronzei, lunghi accordi di fiati e percussioni di ampia sonorità seguono il monaco che il paesaggio accoglie come suo elemento, fra rocce e sottobosco crepitante, acque e sfondi rosati di cielo e profonde vallate.

Infine, il piccolo bagaglio con gli oggetti personali del Maestro viene affidato  al piccolo Haejin.

Sybong lascia l’eremo, Haejin lo rincorre:

Fratello, dove andate?

Sybong si ferma, guarda il cielo dove stride un volo di uccelli e sparisce.

Haejin resta a svolgere i suoi piccoli gesti di vita quotidiana.

 

 

 

 

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