Regia di Steve James vedi scheda film
Film sul basket? Nossignore. Film di basket? Ci siamo già di più. Tenendomi equidistante da ogni definizione possibile di "documentario" (termine già di per sè poco rivelatore), ritengo Hoop Dreams di Steve James una delle opere cinematografiche sportive più belle e struggenti di sempre, nonchè il più poderoso, lancinante, dirompente, entusiasmante basket movie di tutti i tempi.
Con i suoi collaboratori, James ha filmato quattro anni nella vita di William Gates e Arthur Agee, due giovani promesse della pallacanestro delle high school di una Chicago che ai tempi (fine anni '80/inizio '90) assisteva in diretta alla trasformazione in leggenda del mito di Michael Jordan (che del film è una presenza invisibile e ricorrente, sdoganata in video e poster appesi nelle camerette, già immagine capitalistica oltreché insuperabile icona sportiva). Il film, che inizialmente avrebbe dovuto essere un mediometraggio di 30 minuti, è il frutto di un ciclopico lavoro di montaggio su oltre duecentocinquanta ore di materiale filmato. Il risultato è un'opera straordinaria e quasi prismatica nella sua linearità, così autoevidente e scandita dai cartelli che segnalano impietosi la transizione tra un anno e l'altro. Non propriamente un film sul basket in sé (inteso cioè puramente come sport), dicevo, ma certamente uno spaccato antropologico di un mondo che intorno alla pallacanestro ruota come una grande ruota panoramica (per gli appassionati: c'è qui la stessa passione che possiamo trovare per esempio nei racconti di Federico Buffa). Un microcosmo all black fatto di povertà (quasi indigenza), di padri assenti o delinquenti e tossicomani, madri straordinariamente affettuose e lavoratrici instancabili, fratelli maggiori che riflettono (dickensianamente?) le proprie speranze fallite sui minori, figli avuti quando ancora si è ingenui e adolescenti, istruzione precaria e modelli culturali ancora arretrati (o tipicamente in the ghetto), spaccio di droga e ingenuo machismo, amicizia virile e cerchi (hoop) di metallo da cui partono e a cui arrivano i propri sogni. E poi ci sono le scuole, tra tasse che non si riescono proprio a pagare, borse di studio e allenatori rigidi ed esigenti, il mito di Isiah Thomas (che nel film ha una piccola parte, come Spike Lee) e dell'NBA. E la pallacanestro, con il suo ritmo jazzistico che svapora nell'istante/attimo assoluto ("ero tutt'uno con l'attimo" - disse Michael Jordan a epitaffio del suo canestro più celebrato), con la dolorosa abnegazione di ore d'allenamento, con gli infortuni che possono compromettere le carriere più brillanti (e disinnescare quegli Hoop Dreams che si vorrebbero eterni).
Dura tre ore il film, e ci sono quasi più colpi di scena che in un giallo uscito dalla penna di Agatha Christie. E tanto più struggenti quanto lo spettatore (in)consapevole ha abbandonato tutte le sovrastrutture mentali che separano finzione e realtà, perdute in un linguaggio audiovisivo che fluisce come un fiume tra le piene e le secche. In corso d'opera ci si accorge come pian piano il rapporto tra gli autori e le famiglie dei due ragazzi sia diventato vieppiù complice e silenzioso, annullando le distanze ottiche (o autoptiche) tra occhio e obiettivo. E il montaggio è un toccasana: il racconto ha la densità asciutta e fertile di un Hemingway d'annata.
Rivisto oggi, Hoop Dreams, se possibile, aumenta ulteriormente la sua già notevole portata emotiva. La storia di William e Arthur, nella sua unicità, è pur sempre simile a molte delle storie di giocatori che attualmente militano (con stipendi più che discreti) nella NBA. WIlliam e Arthur sono due che non ce l'hanno fatta. Oggi sono quarantenni. Due personaggi con i quali abbiamo convissuto per tre ore (o quattro anni?), ovvero il fratello del primo (Curtis Agee) e il padre del secondo sono stati assassinati. Il doloroso sguardo di Curtis (un volto d'intensità quasi bergmaniana, il volto di un povero ragazzo solo, che ha vissuto su di sè il peso ineliminabile del fallimento) ora non c'è più, ma forse ci sarà sempre, per sempre inscritto in quel fotogramma che lo ritrae con il berretto da security guard e un dolce afflato jazz a sovrinciderlo - manifesto eterno come il poster di Michael Jordan, cristallizzato nella posa d'un'immagine.
La distribuzione italiana di questo capolavoro (edito da Criterion) purtroppo ci tradisce. Anche se non siete amanti o conoscitori della pallacanestro, vi consiglio di cuore di recuperarlo. Non val la pena perderlo. Quei quattro anni (o quelle tre ore) sono un eterno presente. O non hanno mai avuto tempo.
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