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Cosa fare a Denver quando sei morto

Regia di Gary Fleder vedi scheda film

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La recensione su Cosa fare a Denver quando sei morto

di EightAndHalf
4 stelle

Dopo Jockey Full of Borboun dei titoli di testa il lungometraggio di Gary Fleder offre poco o niente di nuovo al genere noir-gangster-thriller, con una trama assai sui generis che sarebbe stata accettabile soltanto nelle mani di maestri come Tarantino o di qualcuno che magari avrebbe potuto gettare tutto sull'ironia e non prendersi così dannatamente sul serio. L'ironia si consuma tutta nelle prime sequenze, e più che narrare equilibratamente le vicende il film sembra mettere un deus ex machina dopo l'altro per aggiungere, di tanto in tanto, qualche frase ad effetto (mai accompagnata dal minimo spunto registico: Fleder non ci prova nemmeno) e altri sottotesti quasi commoventi che inacidiscono e gettano tutto nel risaputo, tanto che neanche l'imprevedibile diventa sinonimo di coinvolgimento emotivo e/o puramente da intrattenimento. Oltre alla trama principale, che fa acqua da tutte le parti, convincono poco tutti i personaggi, caricature che vorrebbero un buon posto nella memoria ma che faticano a non scadere nel ridicolo, fra coprofilia, razzismo, mogli acidule, infermiere sexy, insegnanti morali sempre seduti allo stesso posto del bar a dire "era un gran figlio di puttana" ma mai a negare che quel tipo in particolare avesse doti morali importanti e invidiabili e boss mafiosi immobilizzati e ossessionati dalla propria impotenza. La doppia vita del protagonista (un Andy Garcia francamente odioso) non è per niente sviluppata in termini né narrattivi né caratteriali, e sembra solo un pretesto per inserire i dialoghi dei vari defunti che parlano ai figli e comunicano loro varie verità sulla vita. Il ritmo non mantiene l'attenzione sempre desta, e né nella scena dell'autostrada, straordinariamente insignificante, né nell'apparizione mitica di un inedito Steve Buscemi killer su commissione (e ancora Tarantino torna alla mente, volenti o nolenti) si riesce ad affezionarsi, a fare propria la vicenda, nella strada della piattezza più fastidiosa. L'unico personaggio che si salva è quello della prostituta, perché anche la storia d'amore fra il protagonista e la cavallerizza della situazione è solo brodo da aggiungere alla minestra - non ripugnante ma insapore -: peccato che anche il personaggio della giovane adescatrice, drogata fuori scena e arzilla come pochi altri, debba essere rovinato dall'orrido finale. Evitabile, potenzialmente simpatico ma, a conti fatti, privo di verve. Niente da aggiungere sul bassissimo personaggio del figlio un po' folle: la sua fine, al confine con l'eutanasia d'amore (ucciso perché avrebbe sofferto d'amore), getta il film nel melenso più becero, perché la pietas non si evoca neanche a sforzarsi. La pochezza regna sovrana.

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