Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film
Opera prima per Takeshi Kitano, che inizialmente doveva solamente recitare in questo film che era stato concepito come una commedia (!). Mettendo pesantemente mano alla sceneggiatura, evidentemente, deve aver intuito che aveva già i mezzi necessari per irrompere nel cinema con la sua poetica esplosiva e devastante, con il film che probabilmente è ancora il suo picco in quanto a nichilismo e oscurità. Kitano dipinge un Giappone dove i volti non sono quelli di persone ma di pezzi di carne, i quali spesso e volentieri comunicano soltanto con la forza dei pugni, la legge del più forte; il suo personaggio è silenzioso, intimamente misantropo, con metodi di lavoro aberranti e un'escalation di violenza inaudita, ma malgrado ciò risulta l'unico personaggio con cui lo spettatore può immedesimarsi, tant'è la mancanza di umanità nell'affresco generale che egli ci propone. Mettendo da parte qualche eccesso di carrelli Kitano prende già in mano le redini della regia alla perfezione, un susseguirsi di perfette inquadrature come un puzzle, scene costruite come tante scatole cinesi che vivono sospese nel tempo, fra realtà e surreale; il sangue schizza a pennellate, ma mai che egli sfoci nell'assurdo o si lanci in un movimento di camera in più. E' il montaggio a creare il senso del dolore, o addirittura, a imprigionare i personaggi in inquadrature angoscianti, come nella scena iniziale dove il senzatetto viene picchiato senza riuscire a fuggire, né dai bulletti né dall'occhio impietoso di Kitano. Gli unici momenti che contrastano tutta questa oscurità sono quelli passati dal protagonista con sua sorella, probabilmente l'unica persona che egli davvero ama senza che mai si scambino una parola. Qui più che mai le scene passate ad osservare il mare non sembrano una fuga dalla realtà come ad esempio in Sonatine, ma un vero e proprio grido disperato per uscire dalla propria esistenza. Come se fosse il miglior Chaplin, Kitano riesce ad inserire momenti di ironia acida in scene nere come la pece, e in scene sensazionali come quella in cui Kikuchi uccide uno spacciatore lanciandolo giù dal palazzo comunica ansia allo spettatore usando soltanto il rumore di qualche tamburo in sottofondo e una serie di inquadrature in chiaroscuro, quasi come se fosse un film espressionista. Il tutto con una totale economicità di mezzi, facendone un intelligentissimo uso fino all'ultimo centesimo. Mai nel cinema fino ad all'ora la discesa annichilente negli "inferi" è stata così al tempo stesso umana e disumanizzante, mostrando gli esseri umani nella loro faccia più oscena, e mai che tale nichilismo sia stato così catartico, purificante, con la piena consapevolezza che malgrado tutto il sistema continuerà ad andare come sempre, come mostrato nell'ambiguo finale. Uno degli esordi più fulminanti di sempre.
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