Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film
Ahlat Agaci, ovvero il pero selvatico, secondo la lingua turca, è diventato in italiano L’albero dei frutti selvatici… Ennesima titolazione fuorviante per il suo tono favolistico, del tutto estraneo al film che della favola non ha davvero molto.
Ahlat Agaci, oltre al titolo originale del film, è l’albero del pero selvatico coi rami dalle punte spinose che cresce tra i monti e le colline dell’ Anatolia nord occidentale sul Mar di Marmara, presso i Dardanelli. Ha un aspetto disarmonico e un fusto dalla corteccia rugosissima e spesso spaccata, tutto contorto e aggrovigliato: la sua immagine ne riflette la tenace resistenza ai venti che arrivano da ogni parte spazzando quei luoghi, forgiandone il paesaggio assai aspro e poco ospitale, così come il carattere dei suoi abitanti. Eppure quel pero è una risorsa preziosa: il legno, è fra i più robusti al mondo, mentre i suoi frutti, (molto graditi agli ovini che arrivano fin lassù col loro pastore), nella loro piena maturazione, quando cadono a terra, sono dolcissimi e graditissimi anche agli uomini.
Lassù, nella regione di Çan, era nato Idris Karasu (Murat Cemcir), che aveva studiato a Çanakkale (dove sorgeva presumibilmente la Troia omerica, almeno secondo Heinrich Schliemann) ed era diventato, dopo aver vinto un pubblico concorso, maestro della scuola della città di Çan dove si era stabilito e aveva messo su famiglia, col cuore al suo villaggio poco ospitale, ai suoi vecchi, ai suoi animali e al suo pero selvatico. Voleva costruire lì la casa da godere dopo la pensione e aveva cominciato a farlo, investendoci parte del suo stipendio incurante dello scherno sprezzante della moglie e dei figli che dalla loro abitazione di città non intendevano proprio muoversi, tanto più che gli scavi per l’acqua si erano rivelati inutili e lo avevano costretto addirittura a indebitarsi.
Era schiacciato da un ingranaggio micidiale lo sciagurato Idris: si indebitava al gioco per ottenere i soldi per pagare i creditori che glieli avevano prestati per scavare il pozzo: tutta la città ne era al corrente, mentre le autorità chiudevano un occhio, permettendogli di arrivare alla pensione conservando il suo posto, sempre meno prestigioso, da insegnante; intanto cresceva lo scontento in famiglia.
Suo figlio Sinan (Dogu Demirkol), al momento del film, aveva poco più di vent’anni; stava tornando a casa dopo l’università e portava con sé, come è giusto a quell’età, speranze e sogni per il futuro. Non avrebbe voluto, percorrendo la strada del padre detestato, dedicarsi all’insegnamento, per evitare di finire, com’era capitato a lui, in una piccola città sperduta e isolata dell’Anatolia profonda. I tempi erano cambiati: ai giovani con una certa preparazione culturale si offriva sicuramente di meglio. Di meglio, invece, era difficile trovare qualche cosa: i suoi compagni di studi si erano occupati nella polizia, adattandosi senza molti scrupoli, alla politica repressiva del governo e gliene avevano parlato; preferibile, allora, il concorso, tentato infine senza convinzione e senza successo. Era forse percorribile un’altra strada, quella della scrittura: adorava scrivere e aveva iniziato un romanzo che stava concludendo nella speranza di trovare, grazie all’interessamento delle autorità locali, un editore e una rete di vendita ben organizzata che ne favorisse la diffusione. Un successo, questa volta, ma solo a metà: un editore; un articolo su un quotidiano locale e la pubblicazione di qualche centinaio di copie, rimaste invendute! Come si poteva vendere, d’altra parte, un romanzo dal titolo Il pero selvatico, evocativo di una realtà povera e lontana, in un luogo tutto proteso verso la modernità, il progresso e la ricchezza, non importa come accumulata? Quei suoi poveri libri, ora che la pioggia dell’autunno aveva cominciato a farli marcire, avevano dovuto essere ricoverati in casa, dove per altro né la sorella, né la madre li leggevano. Era forse arrivato il momento di rivalutare quel padre, ora in pensione, che aveva saldato i suoi debiti grazie alla liquidazione e che ora aveva ripreso a vivere nel suo villaggio, in compagnia dei suoi vecchi, dei suoi animali e delle bellezze straordinarie della natura?…
Questo è un film meravigliosamente lento, come tutti i precedenti firmati da Nuri Bilge Ceylan, che racconta senza fretta, ancora una volta, la sua Turchia, quella splendida Anatolia di cui ci ha parlato in tutti i suoi affascinanti lungometraggi.
Questo mi è sembrato il più “politico”, fra tutti i suoi lavori, ma le virgolette sono necessarie, perché egli rifugge, come sempre, da ogni aperta denuncia: come sappiamo fin dal suo primo lungometraggio, il suo non è un cinema militante, poiché preferisce offrire agli spettatori situazioni complesse, sfaccettate; dialoghi in cui le più diverse tesi si confrontano; immagini suggestive, ma non sempre limpide, così da permettere a ciascuno di noi di calarsi, con il proprio giudizio, nella storia raccontata e di trarre le proprie conclusioni:
“Nelle mie opere non intendo dare nessun tipo di messaggio, perché sono una persona alla continua ricerca di un senso nella vita, la vita mi fa piovere addosso delle immagini che colloco all’interno di situazioni reali. Sono un essere umano fragile, vivo l’amore in maniera turbolenta, intensa, e lo racconto nei mei film, insieme agli altri sentimenti, per cercare di capirli. Non ho mai amato i film con i messaggi forti, devo essere io, attraverso le immagini, a trovare un mio senso. Non intendo fare il cosiddetto pifferaio, quello che incanta i topi e li porta con sé in un paese fantastico. Io poi non saprei dove portarli”... (così afferma lo stesso Ceylan nell’intervista – molto raccomandabile – a cura di Carola Proto, riportata integralmente QUI).
È certo che la sua costante esplorazione dell’Anatolia ci permette di comprendere meglio un paese pieno di vitali contraddizioni, ponte sospeso fra l’ Occidente agnostico, pragmatico e razionalista (di cui il giovane Sinan subisce il fascino) e la tenace resistenza delle antiche tradizioni, non solo religiose, capaci di dare senso alla vita di ciascuno, ancora vive nelle campagne, dalle quali in genere i più giovani se ne vanno in cerca di meglio, ma nelle quali potrebbero tornare, quando, cadute le illusioni, rivaluteranno i “valori e le cose che contano davvero”, risucchiati dal passato più antico e oscuro di quel paese bellissimo in cui la neve perennemente sembra congelare ogni speranza di cambiamento.
Se questo, come credo, è il significato del film, allora i lunghissimi e bellissimi dialoghi, le fascinose discussioni “en plein air”, o nel chiuso di un’abitazione o di una biblioteca, piani sequenza che accompagnano il confrontarsi o anche l’ironico e civile scontrarsi dei diversi punti di vista, ne costituiscono la struttura portante e vanno seguiti con l’attenzione che non può mancare se si ama il bel cinema, anche se il film dura più di tre ore, durante le quali, talvolta, la rappresentazione onirica, spesso agghiacciante, riporta alla nostra coscienza l’estrema crudeltà del reale, al di là di ogni ipocrita politesse. Personalmente non ho provato né noia, né desiderio di uscire, tanto profondo è stato per tutto il tempo il coinvolgimento intellettuale ed emotivo che, come sempre, il regista riesce a provocare in me.
Grande film, grandi interpreti, magnifica fotografia, affascinanti riprese paesistiche; frequenti richiami letterari a Cechov e a Dostoijevski, ma anche (mi è sembrato) agli scontri verbali e inconcludenti fra Naphta e Settembrini raccontati da un ironico Thomas Mann-Castorp. Che cosa c’è in fondo di più incantato e magico della maliosa montagna anatolica ricoperta di neve? Forse il canto mortale delle Sirene che Ulisse aveva voluto ascoltare solo legato: la scultura moderna in legno del cavallo di Troia a Çanakkale, creata per la gioia dei turisti, non a caso nel film diventa l'incubo più spaventoso di Sinan!
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