Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film
Sinan (DoguDemirkol) è un giovane ragazzo che torna al paese d’origine dopo il periodo di studi trascorsi in città. Conseguita la laurea in lettere, sogna di diventare uno scrittore. Si mette perciò a fare piccoli lavori per cercare di pubblicare il suo primo libro,“Ahlat Agaci”(che tradotto significa l'albero delle pere selvatiche). In famiglia non trova una situazione facile, a causa soprattutto del padre Idris (Murat Cencir), un maestro elementare che si è indebitato giocando ai cavalli. I creditori lo tallonano di continuo, e spesso si rivolgono al figlio, che intanto ha maturato nei confronti del padre un sentimento che oscilla tra l’amore filiale e la rabbia civile. Una soluzione potrebbe essere quella di far ridiventare fertile la campagna inaridita di loro proprietà, ma i tentativi di Idris di trovare l'acqua in un pozzo faticano a dare i frutti sperati. Sinan gli presta soccorso, ma intende anche trovare la propria strada per cercare di non incorrere nei suoi stessi fallimenti.
Innovare non significa rinnegare. Rimanere legati alle radici culturali più profonde di un paese non significa non iscriversi al corso naturale del divenire storico. Ma in un paese come la Turchia, dove la voglia di progresso è sempre tenuta a freno degli aspetti più retrivi che caratterizzano il suo tessuto sociale, quel limite è più difficile da definire in maniera pacifica e senza che il suo superamento comporti l’accusa fi “traditore dei sacri valori della tradizione”. Ecco, questa sintetica premessa mi è sembrata utile per introdurre l’idea che con i suoi film, attraverso la varietà dei personaggi che li popolano, Nuri BilgeCeylan ha saputo riflettere sulle tensioni più o meno latenti che percorrono la società turca per offrirne un quadro attendibile.
Nel cinema di Ceylan, infatti, la vita sembra sempre rimanere in uno stato di sospensione emotiva, in balia tra l’essere e il dover essere, tra i pensieri che intendono volare liberi e i luoghi che possono imprigionarli. Un cinema che vive nell’eterea sacralità del tempo, che come da presenza immodificabile e immutabile qual è si erge sopra il rapporto tra il momento della vita e i pensieri sulla morte, fra la sostanza fisica del qui e ora e le vertigini dell’immaginazione.
Tra tutti i film dell’autore turco,“L’albero dei frutti selvatici” è probabilmente quello dove il fattore tempo fa più sentire il suo peso narrativo, fosse solo perché l’elemento centrale del film sta nel fatto che il rapporto con la terra si fa specchio del legame padre-figlio, rapporto inteso sia come fattore qualificante di ogni legame filiale sia come termine di paragone tra il presente che si vive e il futuro verso cui ci si vorrebbe proiettare.
La terra è ciò che dà ritmo al tempo, ciò che gli dà il senso di avere una ragion d'essere che va ben oltre la sua astrattezza. La terra è ciò che conta veramente, la terra con i suoi odori, i suoi colori, la sua fertilità. È nel legame con la terra che il rapporto tra padre e figlio può ricevere le coordinate sicure in cui rifugiarsi alla bisogna, nonostante i rancori e le offese vicendevoli, nonostante le colpe sottaciute dei figli e le bugie raccontate dai padri. La terra dà e toglie quasi in egual misura, e la somma è sempre positiva, perché ciò che rimane, in quanto frutto della terra, è sempre un qualcosa che riempie un vuoto, una cosa concreta di cui vale la pena prestare attenzione.
Alla caratterizzazione variamente meditabonda di Sinan, Nuri Bilge Ceylan affida il compito di incarnare l’anello di congiunzione tra la propensione ad andare oltre e il richiamo alle radici. Sinan è un ragazzo transitorio, il suo sogno di diventare uno scrittore si incontra e si scontra allo stesso tempo con quel senso dell’attesa che, quando non serve allo scopo specifico di far maturare per bene il frutto della propria volontà, può arrivare ad incancrenire anche le migliori speranze. Sinan non sa decidere, da un lato ostenta una calcolata superbia verso quella provincia in cui è ritornato dopo il periodo universitario, dall'altro lato sembra mostrarsi debole rispetto all'effettiva possibilità di avviare un percorso esistenziale slegato dalla storia della sua famiglia. Lui è come il frutto selvatico a cui fa riferimento il titolodel film (che in originale è "Ahlat Agaci", pero selvatico), che conserva una sua specifica consistenza soprattutto se legato ai suoi rami e se protetto dal tronco dell’albero (tra i più robusti che si conoscono in natura). Sinanè quel frutto dai connotati amari e dalle promesse tutte da scoprire, legato a suo padre che come il tronco dell'albero rimane solido e presente a sé stesso nonostante tutto. È quel tipo di persona che pur riconoscendo gli errori per quelli che sono non riesce a sfuggirne, che pur rimanendo travolto dalle colpe del padre non riesce a rimanerne estraneo. Ma il loro legame va oltre le colpe che lo popolano, perché conserva quella solidità di spirito presente nell’andamento ciclico appartenene alle faccende della terra.
Il film è anche inclinazione a riflettere sullo stato delle cose con una modalità che oscilla tra la polemica pretenziosa e lo scambio di punti di vista. A circumnavigare le forme silenti del film ci sono lunghi discorsi, sul valore della letteratura, sul ruolo della religione, sui percorsi oscuri dei sentimenti, sui destini del mondo, e ogni volta si è come assorbiti da un fiume di parole che speculano sui massimi sistemi (tipo “La fede è il desiderio di non conoscere la verità”) nel mentre la sonnolenta vita di provincia sembra lavorare per annichilirne ogni anelito di originale vitalità.
Nuri Bilge Ceylan dirige tutto il materiale narrativo con comprovata maestria, agendo come al solito di sottrazione per lasciare che il naturale scorrere della vita lasci che le cose acquistino la propria solidità secondo il tempo che gli occorre.Un autore che sa coniugare il momento della riflessione speculativa con l’impercettibile linguaggio delle sensazioni.
Concludo con una nota simpatica.In una scena del film,ad un certo puntola macchina da presa stringe l’inquadratura su di un film che sta passando alla televisione.Qui compare Yilmaz Guney, regista e attore turco che prima della morte prematura ci ha lasciato almeno due capolavori (“Yol” e “La rivolta”).Io vi ho visto l’omaggio di un maestro ad un altro maestro.
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