Regia di Pablo Trapero vedi scheda film
Venezia 75. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
La Quietud mostrava il proprio stemma all'ingresso del vasto podere; la quietud odorava dei prati erbosi e dal giardino di rose. La quietud era immacolata nel silenzio di quell'angolo di mondo alla periferia della capitale. La Quietud era il retaggio di un'epoca passata in cui la villa padronale piena di camere e serve troneggiava tra pascoli e boschi brulicanti di cavalli e bovini, manifestando, con magniloquenza, chi fosse il padrone di ciò che stava attorno ad essa. La Quietud era un luogo fisico ma era diventa da tempo il silenzio dell'anima, il cassetto ove custodire parole mai espresse, violenze mai dimenticate, logiche di convenienza e connivenza. La mannaia della morte era, tuttavia, pronta a presentare il proprio conto, ed un vaso di opprimenti segreti stava per essere scoperchiato da una vita al termine e da una tardiva, ma quanto mai opportuna, ricerca terrena della giustizia e della verità.
Con la delicatezza di chi è abituato a trattare i propri divi Alberto Barbera annunciò la presenza del film "La Quietud" a Venezia 75 nella categoria "fuori concorso" lasciando trasparire tutta la mestizia di tale scelta. C'era un altro film argentino a cui fare posto nella sezione principale, di un autore sconosciuto ma potenzialmente sorprendente. Scelta accolta con galanteria dal regista Pablo Trapero, già Leone d'Argento per la regia nel 2015 con "Il clan", perché un passaggio a Venezia è pur sempre occasione gradita per dare risalto al proprio lavoro, soprattutto se si proviene dall'Argentina, il cui cinema non trova grandi spazi di distribuzione all'estero, in Italia in particolar modo. Motivare la scelta di Barbera è stato arduo benché un paio di idee mi siano frullate. La prima è che il film non fosse effettivamente pari all'illustre precedente e perciò a fronte di un nome altisonante sia stata più consona una proiezione fuori concorso suscettibile di minor interesse e critiche. La seconda riguardava l'argomento trattato. L'inserimento del film in concorso avrebbe, forse, tirato su un polverone, come sempre succede quando l'argomento è delicato. Personalmente ho propeso per la prima ipotesi anche se, indubbiamente, un piccolo ruolo nella scelta penso l'abbiano ricoperto le ambiguità sessuali delle protagoniste. Il film ha narrato la storia di due sorelle ritrovatesi al capezzale del padre. Se Mia (Martina Gusman) aveva vissuto nelle sfarzose e comode stanze della "Quietud", Eugenia (Bérénice Bejo) si era trasferita da tempo in Europa dove la famiglia aveva soggiornato per assecondare la carriera diplomatica del patriarca morente. La reunion, tuttavia, era stata tumultuosa tanto da scoprire antiche passioni ed antichi dolori, sepolti da una coltre di polvere.
Pablo Trapero ha diretto un drammone nel quale sono spiccate le doti interpretative delle protagoniste. Oltre alle citate sorelle è stato importante l'apporto di Graciela Borges nei panni della matriarca Esmeralda alla quale l'attrice ha conferito rigore emotivo di facciata e tutta la fragilità di un'intimità violata. Il suo personaggio, conformista e dolente, è stato la chiave di lettura dell'intero dramma andando ad influenzare azioni ed atteggiamenti delle figlie difronte alla famiglia. Come nel precedente "Il clan" Trapero ha indagato intorno ai rapporti irrisolti tra genitori e figli, e la difficoltà delle nuove generazioni a svincolarsi dai propri padri e dalle proprie madri risulta evidente, come palese sembra l'impossibilità di sdoganarsi dalle scelte discutibili prese dai propri genitori. A fronte dell'ottima recitazione e dello spessore conferito ai personaggi, Trapero ha dato l'impressione di appesantire la storia principale aggiungendo fin troppe sottotrame rimaste parzialmente inespresse. In particolare mi riferisco ai risvolti processuali a carico del padre di Mia ed Eugenia. In un paese che fa ancora oggi fatica a fare i conti col passato la questione dei rapporti tra famiglia e regime meritava un maggior approfondimento anche in termini di minutaggio. Ma Trapero ha preferito applicare al proprio racconto un'atmosfera da telenovela, di classe, rispetto a quanto arriva mediamente dal Sud America ma pur sempre una "novela", con tanto di corna, tradimenti, violenze, esternazioni plateali di sentimenti, il tutto rinchiuso nella cornice di un elegante e ricca "fazenda". E per essere sicuro di attrarre chi ricorre al genere per soddisfare i propri appetiti morbosi ha spinto verso l'inverosimile il rapporto ambiguo tra le due sorelle ormai liberate dal castello di carta caduto fragorosamente sotto il peso di stagionate menzogne.
Trapero ha optato per gli stilemi della telenovela a cui ha aggiunto contenuti più impegnati, sull'esempio di alcune opere televisive molto famose nel proprio paese come "Montecristo" e "Vidas robadas" ma il risultato non è mai stato graffiante come ci si poteva attendere da un regista della sua caratura. Sul finale ognuno è libero di farsi un'idea. Io l'ho trovato pruriginoso, poco verosimile e moralmente discutibile. Ho, per altro, riconosciuto al regista il desiderio di lasciare dietro le spalle delle giovani donne la storia di famiglia così come gli argentini meriterebbero di lasciarsi il passato dietro di sé nonostante sia forte la necessità di ricordare per evitare un futuro peggiore. Nel complesso il film è sufficiente ma senza entusiasmare. Tra i film argentini presenti a Venezia gli ho preferito "Acusada" di Gonzalo Tobal, passato per la competizione, anche se quest'ultimo non ha ottenuto i favori della critica e pochi da parte del pubblico. Forse a godere tra i due litiganti è stato il terzo argentino al Lido "Il mio capolavoro" di Gastón Duprat, anch'esso "fuori concorso" ma distribuito con maggior sollecitudine nelle nostre sale, con recensioni mediamente più interessanti sia del pubblico che degli addetti ai lavori.
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