Polanski era a Roma (1971) senza lavoro quando Jack Nicholson gli telefonò da Hollywood la bella notizia: aveva finalmente trovato un film per lui, in cui avrebbero potuto lavorare insieme, come desideravano da tempo. Egli aveva tra le mani, infatti, una sceneggiatura, forse proprio quella giusta, firmata da Robert Towne e intitolata Chinatown.
Poco dopo il regista era stato chiamato anche da Bob Evans, della Paramount, che a sua volta gli proponeva di leggere quello script: era così interessante, infatti, da indurlo ad assumere l’impegno di produrre il film, purché a dirigerlo fosse lui, regista e intellettuale che con occhio europeo sapeva raccontare gli Stati Uniti; gli garantiva la massima libertà.
Polanski nicchiava: una ragione molto privata lo teneva lontano da Hollywood, teatro della tragedia che, a Cielo Drive, gli aveva sconvolto la vita due anni prima. Nel merito della questione, lo scritto di Towne gli era sembrato buono, ma non privo di difetti: un’eccessiva proliferazione di personaggi irrilevanti e un happy end per lui inaccettabile. Se davvero il film doveva nascere con la sua regia, sulla traccia di quella sceneggiatura, egli intendeva procedere a una sua revisione completa insieme allo stesso Towne.
E’ cosa nota che le difficoltà più grandi, prima delle riprese, furono generate proprio dai contrasti fra Towne e Polanski, che alla fine aveva ottenuto di eliminare l’eccesso di personaggi secondari e che in seguito avrebbe riscritto da solo – cancellandone il convenzionale lieto fine – l’ultima parte, trasformandolo nella tragedia inaspettata e dolorosa, ai limiti dell’assurdo, che tutti conosciamo e che conferisce al film un carattere originale, aprendo prospettive più ampie al cinema di detection.
Un nuovo noir
Al di là di alcune somiglianze abbastanza esterne, Chinatown a stento si colloca nella scia dei noir che nel corso degli anni ’40 si erano ispirati, con grande successo, ai romanzi di Chandler. Era passato molto tempo da allora: una guerra mondiale, il muro di Berlino, l’assassinio di Kennedy, le sorti incertissime della guerra del Vietnam erano sufficienti a capire che era finito il momento dei detective alla Humphrey Bogart, elegante, rubacuori e snob convinto che i tesori misteriosi, per impadronirsi dei quali gli uomini entrano in una logica delittuosa, siano della stessa materia di cui sono fatti i sogni*.
I misteri, nel mondo in cui Polanski si muove e fa muovere i personaggi di Chinatown, sono assai più prosaicamente fatti di royalties, di affari, di banche e di speculazioni spietate (magari intorno all’acqua, elemento vitale e perciò ben più prezioso dei falconi tempestati di diamanti), che sostanziano materialmente i “sogni” di personaggi tutt’altro che romantici, uomini senza scrupoli e senza coscienza, nel film identificati con Noah Cross (interpretato da un malvagio John Huston con grande classe e con molta intelligenza), il cui enorme potere corruttivo gli permetteva di comprare proprio tutti: dagli sprovveduti anziani agricoltori, alla polizia, alla magistratura, ai politici.
Il confronto con questo esagerato potere non ammette alcun lieto fine: ne usciranno sconfitte, prima di tutto, le persone più fragili e tenere, come la figlia di Noah, Evelyn Cross (una fascinosa e misteriosa Faye Dunaway), che nel film è il dolente personaggio della vedova Mulwray, oltraggiata e umiliata dal padre incestuoso e indegno, o come la giovane e innocente Katherine, sua figlia.
Ne saranno schiacciati anche gli onesti, coloro che si guadagnano la vita avendo a cuore esclusivamente il loro lavoro, fatto bene e con dignità, come l’ingegnere Hollis Mulwray, alto dirigente del dipartimento per l’acqua e l’energia elettrica di Los Angeles, assassinato per aver scoperto una speculazione colossale ai danni dei cittadini, o come Gittes (splendido Jack Nicholson), il detective che, pur non proponendosi lo scontro col potentissimo Noah, non aveva potuto evitarlo, nel tentativo di salvare almeno il proprio lavoro scrupoloso di attento osservatore-fotografo della realtà per conto di clienti che per questo lo pagavano.
Lo sfondo del film è quello, storicamente reale, della grande sete californiana alla fine degli anni ’30, quando numerosi furono gli episodi di una “guerra per l’acqua” che fece molte vittime, poiché divenne ben presto una guerra per il controllo di una risorsa naturale preziosissima, indispensabile non soltanto agli usi quotidiani degli abitanti di Los Angeles, ma anche alle attività che agricoltori e allevatori svolgevano negli ampi territori prossimi all’Arizona: una irrinunciabile risorsa per la vita.
Quel tempo lontano emerge grazie alle straordinarie immagini che lo restituiscono agli spettatori: le case della Los Angeles di allora, i suoi poco efficienti impiegati pubblici, le auto di quell’epoca, nonché un modo di vestire, di pettinarsi, di truccarsi, di abitare che il regista presenta con accuratissima e quasi filologica precisione.
Lo scenario è, ovviamente, quello dei grandi spazi aridi e deserti della California, che richiamano alla memoria quelli del western classico, nonché il film famoso diretto da John Huston nel 1960, Gli spostati, che già metteva in evidenza la crisi di quel mondo mitico. Non a caso è proprio John Huston, il grande regista prestato alla recitazione, l’interprete di Chinatown che invera, con la sua presenza, quell’antico e mitico cinema americano del quale questo film sanziona la fine.
Si insinua, dunque, una corrispondenza forse meno evidente, ma certamente presente, fra Gittes e Polanski, a sua volta osservatore- fotografo di una realtà che vorrebbe evitare ma che gli si impone con la sua forza dirompente, forse quella stessa che cercherà quasi subito di limitarne la libertà**
Che si tratti degli immensi spazi dei deserti o dell’oceano, o di quelli ridotti delle strade di Los Angeles o degli interni delle case, la visione del film ci lascia una sensazione claustrofobica, a cui la regia di Polanski ci indirizza consapevolmente, attraverso l’uso dall’alto della macchina da presa che schiaccia i personaggi in spazi sempre più stretti, indicandoci in questo modo i limiti del loro agire e l’impossibilità di ogni fuga, in questo introducendo nel noir il proprio pessimismo, molto europeo certamente, sul futuro senza prospettive degli uomini, schiacciati dal potere e impotenti ad arginarlo.
___________
*Sono le parole, desunte da Shakespeare (La tempesta), con cui Humphrey Bogart conclude Il mistero del falco, il grande film diretto da John Huston nel 1941.
** I guai giudiziari del regista, che testimoniano una pervicacia persecutoria singolare nei suoi confronti, anche dopo mezzo secolo dai fatti che gli vengono imputati, cominciarono dopo che venne girato questo film, ciò che non mi sembra una pura coincidenza!
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta