Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Come le dive negli spettacoli d’altri tempi, Chinatown compare solo alla fine del film. Per tutta la sua durata, escluso ovviamente il finale, Chinatown è un non-luogo, è il luogo del non-detto e del non-dicibile, il passato che non passa e il futuro che fotte. E in fondo cos’è che sta al centro di Chinatown? “Il futuro!”. Il potere è il tempo e il tempo è potere e Jack Nicholson non lo capisce o non lo vuole o non lo sa o non lo può capire. “Quella è Chinatown” e non ci si deve tornare perché tutto ciò che avviene a Chinatown appartiene al territorio dei morti. Prendiamo la splendida sequenza del post-amplesso nel letto: la parafrasi del film è tutta negli sguardi di Jack Nicholson e Faye Dunaway, nelle dita di lei che sfiorano la bocca di lui forse per l’utopia di plasmare il loro amore impossibile, nelle mezze frasi pronunciate carezzando la paura di ricomporre un maledetto puzzle.
Chinatown è un film di morti, consapevoli e no, che vivono come gli spettri di una realtà marchiata indelebilmente dalle ferite irreversibili generate dal seme della violenza. Ed è, in fondo o in superficie non lo so, la costante del cinema di Roman Polanski: un cinema ineluttabilmente segnato dal dolore, anche quando pare che racconti altro, un discorso organico sull’esercizio della violenza in tutte le sue forme e conseguenze. Perché non fa eccezione Chinatown che, va detto, è il film più meravigliosamente “commerciale” del complesso percorso polanskiano? Perché è abitato da personaggi che hanno subito, in qualche modo, gli effetti della violenza, sul corpo o nell’animo che siano, e da personaggi che la esercitano con la naturalezza di chi non deve chiedere conto a nessuno. I dieci minuti in cui John Huston inonda lo schermo con la sua inquietante presenza rappresentano la dimostrazione più plateale di cosa voglia intendere Polanski per violenza.
Naturalmente il film appartiene anche a chi l’ha scritto: citare Robert Towne non è un atto formale, quanto proprio un dovere, perché è merito della sua scrittura magnifica ed ellittica se quello che poteva essere un giallo di routine è diventato uno dei capisaldi del cinema americano degli anni settanta (pensate agli schiaffi di Jack a Faye – ma non rivelo altro della fondamentale scena). Così come vanno riconosciuti i meriti di John A. Alonzo, che colora con luci malinconiche le ombre irrequiete della storia, e di Jerry Goldsmith, autore di una partitura più che suggestiva, che collaborarono in totale armonia con l’autore nella evocazione di un mondo perduto. E certo, perché Chinatown confina con quei film semplicisticamente ma efficacemente catalogati come esempi della cosiddetta poetica della nostalgia: un film disgraziatamente nostalgico senza via d’uscita, talmente classico da sembrare quasi fuori dal tempo. Rieccolo, il tempo, che non passa, che non può, non sa e non riesce a passare. Un capolavoro.
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