Regia di Christian Petzold vedi scheda film
“I problemi di tre piccole persone come noi non contano in questa immensa tragedia” erano state le ultime parole dell’immortale Humprey. Ottanta anni dopo Petzold gira in una Marsiglia astratta, fuori del tempo, sempre la stessa storia.
Da Parigi a Marsiglia, Orano e infine Casablanca, è la traiettoria di Rick e Ilsa in quella leggendaria storia d’amore che Michael Curtiz girò nel ’42, quando in Europa ancora si moriva a mazzi, dentro e fuori dai lager del signor Hitler.
Parigi-Marsiglia, e la storia si ferma lì, nel film di Petzold, d’amore anche questa, ma così diversa, così postmoderna!
Marsiglia è lo snodo, il non-luogo, la città che “accoglie solo chi dimostra di poter andar via”, città di mare e porto di grandi navi che portano lontano, prima gli emigranti pe terr’assaje luntane, poi i perseguitati in fuga, oggi chissà, turisti? rimpatriati? di tutto.
“ I luoghi comunicavano un sentimento ambiguo, che oscillava fra un’atmosfera quasi familiare, come di paese, e un senso di pericolo latente e aspro: qualcosa strisciava, si muoveva silenzioso nei vicoli, ti guardava senza essere visto”. (G.Carofiglio, Le tre del mattino, 2017, Einaudi)
E’ ancora Marsiglia, e ancora una storia d’amore, tra un figlio e un padre, stavolta, e Marsiglia, oggi, non è più la stessa, “…metropoli nordafricana, presidiata ad ogni angolo da prostitute e magnaccia, percorsa da gruppi di ragazzi magrebini dagli sguardi famelici, punteggiata da botteghe strapiene come bazar in miniatura, da negozi sbarrati con assi di legno, da ristoranti che emanavano odore di spezie e fritture, da caffè equivoci, da cinema porno.” (ibid.)
Marsiglia è un luogo di transito, Georg e Marie di Transit s’incontrano per caso o per destino, forse per entrambe le ragioni, in un vortice di arrivi, false partenze, partenze definitive verso la morte, ritorni definitivi negli occhi di chi nelle cose vede l’essenziale, perché “è vero che si vede con tutto, anche col cuore, ma gli occhi guardano e possono vedere anch’essi lo spirito, l’energia nelle forme della materia”.
Dunque Georg continuerà a vedere Marie seduto in quel bar, quello sguardo pieno di ombre è la sua cosa più bella, Franz Rogowsky ha molto del più celebre Joaquin Phoenix, ma quello sguardo ce l’ha solo lui.
Petzold annulla tutti i punti di riferimento, cose e persone oscillano in un indefinito che si ridefinisce continuamente e continuamente si spariglia, è un gioco a carte in cui nessuno può vincere perché è senza regole.
Cercando di mettere in fila i pezzi di una storia che la grande Storia di quegli anni ha pensato bene a scomporre, possiamo dire che Georg è un ebreo tedesco in fuga, giovane ombroso, di poche parole, fortunato quanto basta per arrivare a Marsiglia con i mezzi più rocamboleschi, saltando barriere umane e steccati, e soprattutto con una carta d’imbarco per il Messico ereditata casualmente da Waidel, scrittore suicida a Berlino.
Marie è la moglie inconsapevole di Waidel, aspetta il marito che ama oltre ogni ragionevole aspettativa, gira come un fantasma per Marsiglia, appare e scompare nella vita deserta di Georg, si potrebbe dire come un’oasi, ma in realtà sarà un miraggio.
I miraggi, si sa, scompaiono, ma non per questo sono meno veri, e s’impara a vivere anche solo di quelli.
Per Georg Marie è l’amore, e tanto basta.
Seduto in quel vecchio bar ha raccontato la sua storia al vecchio barista che la racconta a noi, la sua voce fuori campo è quella del libro di Anna Seghers che scrisse Transit, un’autobiografia di esule braccata dalla Gestapo nel ’44.
Un libro dà inizio alle cose della vita, quello di Anna Seghers, l’identità di uno scrittore passa ad un altro, un uomo qualunque, un tecnico radio addirittura, ma sarà lui, da quel momento a scrivere storie nuove e raccontarle al cinema.
E il cinema continua a raccontare la nostra storia.
C’era una volta un uomo che amava una donna…
Il tema dell’esilio è il nodo centrale di Transit, titolo originale che la versione italiana sceglie di alterare mettendo a fuoco il tema amoroso che però non è unico.
Piuttosto, Transit rende meglio quell’idea di spiazzamento continuo che Petzold vuol dare a tutta la vicenda, quella mancanza di certezze che ogni epoca ha plasmato a suo modo.
Marsiglia è una città sfuggente, silenziosa, semi-vuota nelle strade percorse da camionette e sirene dei rastrellamenti, un posto come tutti, allora, dove non sentirsi mai al sicuro, neppure in una buca nel terreno.
Un posto che può essere ancora oggi così, si sparisce come il piccolo amico di colore di Georg e la sua mamma sordomuta, e il loro appartamento si riempie di gente di colore, anonima e spaventata.
Un posto dove si fa di tutto per partire insieme su quella nave della speranza per poi non farcela.
Un film di straordinaria capacità di dare il ritmo giusto, o piuttosto le giuste dissonanze agli eventi, scorre lento quasi fino alla fine, giorni di attesa, visti d’imbarco che tardano, file al consolato, e poi improvvisi colpi di scena, un finale dove si accumulano sorprese, fino al fermo immagine che chiude, un capolavoro, come un improvviso taglio musicale nel bel mezzo di una nota sublime.
“I problemi di tre piccole persone come noi non contano in questa immensa tragedia” erano state le ultime parole dell’immortale Humprey.
Ottanta anni dopo Petzold gira in una Marsiglia astratta, fuori del tempo, sempre la stessa storia.
www.paoladigiuseppe.it
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