Regia di Christian Petzold vedi scheda film
Un luminoso presente ospita un tragico passato. E lo rende più vivo che mai.
Qualcosa non va, in questo film. Sarà che qualcosa è rimasto sospeso a quel filo: tesissimo, onnipresente, elegantemente invisibile, che tiene un estraneo dentro una storia di altri, di sconosciuti, di mondi che non gli appartengono. Georg è, suo malgrado, il legame che intesse il discorso, che intreccia i destini diversi, che avvicina le cose lontane. Il suo vagabondare senza meta, senza senso, inserisce in una vicenda evanescente una robusta nervatura logica. Se non fosse per lui, i pezzi andrebbero sparsi. Non sarebbero che singoli, sbiaditi frammenti del passato, pronti a volare via, al primo colpo di vento, al primo pensiero rivolto a quella modernità in cui tutto è ormai immerso: una Parigi e una Marsiglia dei giorni nostri, in cui si aggira la gente di ieri, profughi o aspiranti tali, disposti a sottrarsi in ogni modo alla minaccia della guerra e della repressione nemica. La scelta scenografica è straniante, per questo romanzo ambientato negli anni dell’occupazione tedesca in Francia: la cornice di oggi non impedisce, però, pur con la freddezza delle sue rifiniture metalliche ed elettroniche, di trovare spazio al calore di allora, a quella sobrietà dei tempi difficili che ormai appare usurata nella veste, benché intatta nel suo cuore di umanità. L’estremo contrasto aiuta a chiudere il cerchio intorno ai pochi protagonisti, ad offrire un rifugio a quel manipolo di drammatiche verità che, inquiete e impaurite, forse sono ancora in cammino. Assieme a loro, anche lo sguardo si muove, la prospettiva narrante si sposta, mentre conserva, nella voce fuori campo, le morbide cadenze del sussurro poetico, delle parole che commentano un quadro, il ritratto di un istante di attesa. Tutto è così fragile e passeggero, che sembra un miracolo vederlo procedere unito, tenuto insieme da un semplice soffio. Qualcosa manca, in questo film: è la stoffa su cui cucire i ricami, quegli arabeschi così aggraziati e inconsistenti che il testo insiste nel voler tracciare sul nulla. Sono foglie morte, quei disegni dal gusto démodé, che pure continuano a frusciare nell’eco del ricordo. È debole il loro essere, orfano del suo universo di tinte fosche e spesse, denso di eserciti, di schiere in divisa, di migrazioni epocali, di campi di battaglia irti di artiglierie, fili spinati, montagne di carne. Intorno, ora, c’è solo una indifferente, uniforme luce di pace. C’è l’aria rarefatta dell’oblio, che segue di un attimo il sollievo. Qualcuno dirà che quell’atmosfera, così brutalmente anonima e attuale, ha disperso l’originale sapore acre e speziato delle persecuzioni, dei bombardamenti, dei tradimenti e delle vendette, di tutto quel fango che, a suo tempo, ha invaso anche le stanze segrete della vita civile, dell’amore, dell’amicizia, della stessa arte. Qualcuno dubiterà che questo film riesca davvero a parlare con la sua lingua madre, quella che viene dal dolore e dall’inferno. Qualcuno, guardandolo, crederà di essere rimasto inutilmente su una soglia vuota, davanti ad una porta chiusa, ad aspettare che arrivino le fiamme a bruciargli l’anima. A quel qualcuno, qualcun altro risponderà, dall’altra parte, che l’inferno è proprio quello.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta