L’antefatto:
1940 – Marsiglia, come Casablanca, è luogo di transito dei rifugiati politici, che, fuggendo da Parigi, alla vigilia dell’occupazione tedesca, lì trovavano il porto dal quale raggiungere, al di là dell’Atlantico, i paesi più sicuri del nord e del centro America: impresa rischiosissima e faticosa; lotta contro il tempo, prima che il governo-fantoccio di Vichy, agli ordini dei nazisti, estendesse fino a Marsiglia la gelida spietatezza dei rastrellamenti contro gli ebrei e gli oppositori politici da spedire ad Auschwitz, come tutti sappiamo.
Un film straniante
A Marsiglia, Maria (Paula Beer) è in attesa dell’arrivo del marito, lo scrittore Weidel, per imbarcarsi con lui alla volta di Città del Messico: solo a lui l’ambasciata avrebbe rilasciato il visto necessario alla loro partenza. Il plico dei suoi documenti di accredito era nelle mani di Georg (Franz Rogowski), come lui rifugiato tedesco a Parigi, comunista in cerca di salvezza su un treno per Marsiglia, dove avrebbero dovuto incontrarsi, secondo i piani della rete clandestina del loro partito.
Per caso, durante il viaggio, Georg aveva appreso del suicidio di Weidel, imprevista circostanza che scombinava quei piani: non sapendo che fare, ora, delle carte in suo possesso, aveva deciso di distruggerle e di sostituirsi a lui assumendone l’identità; ricordare l’indirizzo di Maria era in fondo tutto ciò di cui aveva bisogno per ottenere per sé e per lei, dall’ambasciata messicana, il visto per il viaggio in nave: la salvezza.
In un’atmosfera di attesa estenuante, costretto a non essere se stesso, Georg si era immerso dunque nei vicoli della città, nei suoi bar e nell’universo dei rifugiati provvisoriamente a Marsiglia, vivendo i loro stessi drammi nelle code ai consolati o nella precarietà delle sistemazioni più squallide, negli alberghi e nelle case di passaggio: altre vite come la sua, sospese fra un presente di terrore disperante e un futuro forse meno angoscioso, ma, in ogni caso, incerto e sfuggente perché amore, solidarietà, amicizia, legami familiari sembravano scomparsi o annullati da una generalizzata e spesso subdola volontà di dominio e di sopraffazione.
Il film assume, fin dall’inizio, un carattere di spiazzante contemporaneità, ovvero di un racconto nel quale si confondono passato e presente, poiché ciò che era avvenuto nel 1940 è sovrapposto, sullo schermo, da ciò che sta avvenendo oggi: gli strumenti della discriminazione e dell’oppressione sono gli stessi e (allora, come ora), indossando abiti del nostro tempo, aguzzini reiterano i riti orribili dell’esclusione e della discriminazione contro milioni di rifugiati che, in preda all’angoscia sono lasciati soli, senza identità, disperando di essere riconosciuti nella loro dignità umana, al di là dell’appartenenza religiosa, politica o etnica.
Durante il racconto si susseguono brevi e intense storie d’amore; episodi di amicizia; tragedie; sorprese drammatiche e inaspettate svolte, di cui sarebbe imperdonabile parlare in anticipo: meglio, secondo me, se gli spettatori si lascerannno coinvolgere dall’atmosfera misteriosa di sospetto e di intrigo che il regista costruisce molto bene, poiché nella strana realtà marsigliese in cui porto e periferie sono connotati dalla tecnologia e dalla modernità, nulla e nessuno è ciò che appare, né la voce fuori campo è sempre la stessa: indizi di una realtà oscura e indecifrabile, senza via d’uscita…
Ispirato liberamente al romanzo Transit (1944) della scrittrice e intellettuale tedesca Anna Seghers, il film è, a mio giudizio, pur con qualche difetto, in particolare nella parte centrale (che forse si gioverebbe di qualche taglio), uno dei migliori sullo schermo, in questi giorni, ed è fra i più interessanti firmati dal regista Christian Petzold, già apprezzato nei precedenti La scelta di Barbara e Il segreto del suo volto. Ha però molto diviso la critica e soprattutto gli spettatori, non sempre convinti dalle soluzioni narrative del regista e talvolta incerti nel dipanare l’intricata vicenda.
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mi piace quello che sembra essere il raccontare le storie di oggi con le vicende di uno ieri non troppo lontano; ciao, Lilli!
Ho letto le dichiarazioni del regista (non ricordo dove!): ha voluto evitare un film "in costume" e ha voluto attualizzare la questione tragica dei profughi oggi, evidenziando l'inquietante rassomiglianza con quello che era successo ieri, meno di un secolo fa, in una Europa dalla memoria cortissima, che si era sempre ritenuta civile e umana. Film da vedere e da meditare, sicuramente. Ciao!
penso che sia un film da vedere assolutamente,anche per un regista che ha sempre firmato opere per niente banali,grazie del tuo commento.
Secondo me è un film da vedere proprio per l' insolito sovrapporsi di passato e presente, che può un po' disorientare, ma fino a un certo punto: queste attualizzazioni sono frequenti a teatro, per non parlare dell'opera lirica, dove "ho visto cose che voi umani..."
grazie....
Appena visto,voce fuori campo invadente e poi troppe cose,troppe situazioni che si accavallano continuamente....per non dire fisicita' a zero,mi spiace davvero doverlo bocciare....comunque si vede di peggio...grazie.
Mi spiace Ezio; io non ne avevo avuto un'impressione cpos' negativa!
Di Petzold mi piacque parecchio “La scelta di Barbara” ma gliela giurai dopo “Il segreto del suo volto”... devo però ammettere che il tuo pezzo mi solletica a dargli un’altra chance :)
Curiosamente io avevo preferito Il segreto del suo volto (Phoenix) a Barbara, che mi aveva poco convinta, tanto che mi ero chiesta se non andasse visto con una buona dose di ironia: se vuoi, ma non è un obbligo, eh, puoi leggere le mie recensioni di allora sul mio blog:
https://laulilla.wordpress.com/2013/03/22/una-scelta-damore-la-scelta-di-barbara/
https://laulilla.wordpress.com/2015/02/27/il-segreto-del-suo-volto/
Nessuno dei tre film, in ogni caso, è privo di difetti, ciò che non esclude che presentino tutti e tre più di un motivo do interesse. Grazie del passaggio e del commento! :)
Ho amato molto sia La scelta di Barbara che Il segreto del tuo volto, questo non sono ancora riuscita a vederlo per motivi di tempo,ma prima o poi lo recupererò.Io ,appassionata di teatro e di opera lirica come sono, concordo che è ormai frequente la sovrapposizione temporale nelle nuove regie che spesso giova alla lettura dello spettacolo ma a volte no. Bello scritto! Ciao:)
Grazie, Anna Maria. Il fatto è che queste sovrapposizioni urtano spesso contro la nostra pigra abitudine, ma bisogna ormai farsene una ragione! Qui poi, il "tradimento" non è così grave, almeno a mio avviso, che ho letto il romanzo della Seghers, in e.book, dove è disponibile, ma solo in francese o in tedesco. Ho scelto il francese, perché non conosco il tedesco, Dell'edizione cartacea italiana non ho trovato traccia. Grazie ancora!
Qui l'unico 'tradimento' non è la trasposizione cinematografica del romanzo della Seghers, tradita, in realtà dal non eccelso "La settima croce" di Zinneman (un regista cui tutto è perdonato, al contrario di Petzold del quale si discetta di lana caprina); no, il tradimento è nel titolo italiano "La moglie dello scrittore" che, in realtà, nel corso del fim, appare come la moglie 'in transit' da un consorte all'altro. Titolo quanto mai detournant perché nega tutti i sottintesi del termine polisemico: transit come mezzo di trasporto (vedi i frequenti abbordaggi su taxi, navi), movimenti del corpo (fughe, passaggi, inseguimenti), transiti della donna come linee di fuga che ricordano le apparizioni fugaci della Gradiva di Jensen/Freud o "Nudo che scende le scale" di Duchamp; transit come transazione/traslazione tra esseri incerti del proprio destino e scelte da fare.
Quanto a 'il film non è come il romanzo', mi sembra la scoperta dell'acqua calda: infatti, è un film non un romanzo né può essere altro "... per la contradizion che nol consente...".
Transit, infine come traslazione dal romanzo al film.
Un bellissimo film, che laulilla ne illumina la profondità.
È così, infatti! Grazie, Lorenzo, per i preziosi approfondimenti sulla polisemia del titolo originale e anche per la nuova dimostrazione di stima per i miei scritti.
Ancora Buon 2021. Qui, nel mio giro di amici, si dice che gli auguri ribaditi, quest'anno, siano un Must che porta bene. Un caro saluto.
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