Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Un film nel quale si suppone che questo personaggio abbia tra i quaranta e i cinquant’anni, io non ce la faccio a prenderlo sul serio.
Ho atteso, speranzoso, che qualcuno osasse prima di me. Nulla, tocca immolarsi. Un lamento più che una recensione, un guaito stridente.
C’è una tacita regola che prevede che in un racconto per immagini su piani temporali distanti una o più generazioni, si scelga l’attore giovane e lo si invecchi. Scorsese se ne strabatte e, in un senile delirio di onnipotenza egotistica, fa il contrario. Lattice, botox, gommosità varie, calze di nylon? No, a quanto pare è tutta CGI, l’ultima frontiera del trucco. A me il risultato pare una schifezza. E con le movenze dei quasi ottuagenari come la mettiamo? Va bene la CGI, ma certo non puoi metterci Buzz e Woody vestiti da gangster a saltellare agili e cadere con stile. C’è una scena, nella quale De Niro zampetta sugli scogli, che ha fatto terra bruciata di assicuratori fino in New Jersey. In un’altra, ha evidenti difficoltà a infilarsi il cappotto, e gli viene in soccorso un controcampo truffaldino che gli stira il bavero. Molto bene, Thelma. Molto male, Thelma.
Il dubbio sorge nella prima mezz’ora: che sia tutto metacinema? Ma allora, ditelo. Evviva il metacinema, sia ben chiaro, come quello genialmente (auto)ironico di Jarmush e dei suoi zombi (“The Dead Don’t Die”, il miglior film dell’anno per chi scrive, anche se lì il gotha dell‘ermeneutica settoriale è insorto compatto, svilendo e deprecando, ma chiudiamo la parentesi).
Solo che poi arriva anche Al Pacino, settantanove suonati, faccione gommapiumato al computer nel tentativo di toglierne almeno una ventina, movenze e forma del corpo spietate nell’impedirlo, e arriva apparentemente senza alcun motivo razionale, non facendo egli parte del circolo geriatrico-elitario scorsesiano, né essendo prevista alcuna riscrittura tarantiniana che faccia invecchiare Hoffa. E l’illusione metacinematografica sbiadisce. Così come presto sfuma la speranza che per tutto ciò sia valsa la pena. A un sublime epitaffio non si fanno le pulci sull’ortografia. Ad opera epocale non si farebbe fatica a perdonare approssimazioni e forzature. Ma qua ci sono tre ore e mezza di autoreferenzialità, risaputezza, ridondanza. Una sceneggiatura espansa a tal punto da non riuscire proprio a sottrarre attenzione alle grottesche, patetiche magagne dell’utopico rinverdimento. Dilatazioni narrative peculiari del prodotto televisivo. Perché “The Irishman”, probabilmente, questo è: una miniserie tv con gli episodi accorpati. Ma allora, ditelo.
Ho letto elogi, glorificazioni, panegirici: la summa del gangster movie, la trionfale chiusura di una cinematografia. A me sfugge cosa ci fosse di aperto. E, nel caso, perché arrogarsi il potere di chiuderlo. Sì, perché Scorsese non si limita a tentare di rifare (e chiudere) Scorsese, ma dissemina altresì vistosi richiami ai mobster altrui (vedasi gli strangolamenti, ne ricordo almeno due, da sedile posteriore a sedile anteriore, con ripresa dal cofano dell’auto, salvando quantomeno il buongusto di non prevedere sfondamenti di lunotti coi piedi)... così spiegandosi, forse, anche l’incastro di Al Pacino.
Il mio Martin Scorsese rimarrà sempre quello del ventesimo secolo, il genio che poteva creare un mito intorno a una pentola di ragù, senza pasticciare in 3d, senza la mestizia dell’autocelebrazione, senza l’abbaglio del ritorno all’utero.
“Siamo tutti figli di D.W.Griffith e Stanley Kubrick”, disse un giorno. Chissà se lo pensa ancora.
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