Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Nonostante siano ormai passati svariati giorni, direi settimane, dalla mia visione, in anteprima in quel della Festa del Cinema di Roma, di quest’ultimo lavoro di Martin Scorsese, ho come la sensazione di non averla ancora assimilata totalmente e mi sento incapace di parlarne.
Sia chiaro, non è la medesima sensazione che provo nel nulla cosmico che avvolge il mio essere dopo la visione di quelle pellicole insignificanti che mi lasciano talmente perplessa da rendermi incapace di convogliare anche un solo pensiero, è piuttosto l’impressione di non essere all’altezza di cotanta grandezza (la rima non è voluta).
The Irishman sembra voler contenere tutta l’anima di Scorsese; è l’accumulo di tutto il buono posseduto nelle sue pellicole, è l’emblema del cinema del regista italo-americano ed è per questo che, qualcuno, ha osato già definirlo il suo testamento.
Grazie ad una sceneggiatura possente, composta in misura adeguata sia nei dialoghi che nel racconto, recitata in maniera suprema da Pacino, De Niro e Pesci, a parte il fatto che vederli in scena tutti e tre insieme è già qualcosa di indescrivibile, che senza sbavature vestono i panni dei personaggi in modo che nessun altro avrebbe potuto fare meglio.
Già dalla prima carrellata, quando zio Martin ci conduce attraverso il corridoio di un ospizio dove l’irlandese Frank sta passando gli ultimi giorni della sua esistenza, i brividi invadono il corpo, in un attimo siamo già stati catapultati in quell’ambientazione familiare e tipica dei film di Scorsese. Questo garantisce allo spettatore un coinvolgimento maggiore nella storia che il vecchio Frank decide di raccontare, ripercorrendo la sua vita da fedele affiliato della mafia e veterano della seconda guerra mondiale.
Non è solo un film di mafia, è un film politico, un racconto d’amicizia che si fonde con il dovere e si scontra con la lealtà. E tutto è rappresentato in modo ineccepibile dal trio più longevo di Hollywood con Joe Pesci che torna davanti alla macchina da presa (“Io credevo che fosse morto” ho sentito anche esclamare in giro) dopo quasi dieci anni, rispolverando uno stile che è solo suo (è che chi grida già all’Oscar) anche se il meglio lo danno De Niro e Pacino che duettano di gran classe, con quella sottile somiglianza recitativa che da sempre li contraddistingue.
Quando esci dalla sala, sembra di aver appena ascoltato uno dei tanti racconti del nonno, una storia quasi segreta che solo Martin Scorsese poteva raccontare. Quello stesso incipit del corridoio di cui sopra sembra proprio dire: sedetevi che vi racconto una storia.
Anche la durata, che può sembrare eccessiva, è sintomo del cinema di zio Martin, che rallenta nel ricordo, quasi ci si crogiola, racconta con enfasi, gioca con la CGI (è stata la scelta vincente ringiovanire gli stessi attori protagonisti invece di utilizzare degli ulteriori attori, non avrebbero reso allo stesso modo) e ci regala una delle pellicole più complete e belle di questo 2019.
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