Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Il film più lungo (nonché più costoso) della lunga e prolifica carriera di Scorsese rappresenta, lo si può tranquillamente affermare, la (sua) parola definitiva a proposito di un genere del quale è stato sicuramente uno dei più grandi interpreti.
Dopo Quei bravi ragazzi e Casinò il regista porta a termine un’ideale “trilogia gangster” che ha finito per sviscerare tutti i più vari aspetti della vita malavitosa (l’omertà, la gerarchia, il denaro, il pentimento…) e che ora trova una chiusa con l’inequivocabile constatazione del disfacimento.
Sin dallo stile adottato appare evidente la distanza dagli altri due film citati. In quanto questo The Irishman vuole porsi a finale addio, è un canto funebre di un genere ma anche (e soprattutto) di uno stile di vita definitivamente smitizzato.
Più che epico, movimentato, “divertente” (con tanto di canzoni rock integrate stile Goodfellas), questo ultimo film è lento, “fluente”, dipinge un affresco sconfortante di una realtà dalla quale non paiono esservi vie d’uscita. Un affresco sconfortante di un mondo governato dal denaro (a tal punto che risulta difficile comprendere chiunque agisca per altri scopi) e da arcaiche logiche di potere, “onore”, colpa e pentimento (“no, non intendo fare nomi...”; “stavo solo eseguendo gli ordini...”), che portano perfino a tradire gli amici e i conoscenti.
Anni, decenni di vita schiavi di queste logiche; anni, decenni passati ad inseguire il denaro e l’“affermazione di sé” (con la scusa di dover provvedere per la famiglia), ovvero il potere e la ricchezza, per poi finire soli e dimenticati. Tutti quegli anni, tutti quei delitti, tutti quegli affanni, per poi finirei propri giorni soli, tristi, ignorati a selezionare la propria bara, e il proprio tumulo, in attesa della morte tra le quattro mura d’un ospizio, divorati da inconfessati sensi di colpa e all’ipocrita, tardiva, vile, ricerca di un perdono che non si ha il coraggio di chiedere direttamente alle vittime.
Non vuol essere una malinconica elegia, questo The Irishman, ma piuttosto un impietoso spaccato sociologico di quelli ai quali ci ha ormai abituati il regista, una dura ed inflessibile radiografia di un mondo e di una cultura, di un’intera società (a renderlo presente provvedono le “prepotenti” entrate in scena della Storia con la S maiuscola), che non hanno (più) nulla (o non hanno mai avuto nulla) di ideale, affascinante, “retto”, “onorevole”, onesto o giusto, e che paiono aver perso di vista (al di là delle vacue retoriche) le cose realmente importanti nella vita, al perenne inseguimento del denaro e del potere, in una spirale discendente destinata probabilmente a condurre al disastro.
Uno spaccato potente, lento eppure potente, che lascia inevitabilmente con una profonda pesantezza all’altezza dello stomaco.
Uno spaccato peraltro messo in scena impeccabilmente (tra lunghe carrellate, campi lunghi, panoramiche, inserti documentari, scene di dialogo mai superflue; nonché ineccepibili stacchi ed alternanze di montaggio tra passato remoto, più recente e presente [merito della storica e fidata T. Schoonmaker]; senza contare la minuziosa ricostruzione d’epoca) e recitato, come c’era da aspettarsi, magnificamente (con il “trio di grandi” che dà gran prova di sé, tra un sorprendente e “sommesso” Pesci, un De Niro sotto le righe e un Pacino spesso e volentieri sopra [un po’ come nell’Heat di Mann]).
Impressionante anche l’impresa portata a termine dal punto di vista del “de-aging”: forse per la prima volta la CGI utilizzata a questo scopo è riuscita a centrare pienamente l’obiettivo (certo, qualche lieve “sfasatura” vi è ancora, una certa, quasi indefinibile, differenza rispetto alla realtà la si nota sempre, ma è quasi nulla rispetto al passato).
Insomma, The Irishman, sia dal punto di vista tecnico-stilistico che da quello contenutistico, rappresenta indubbiamente il grado massimo del gangster movie scorsesiano e del suo cinema in genere dell’ultimo decennio. Un ottimo film, forse non un capolavoro, ma un ottimo film, pieno di spunti, significati e sfaccettature che di certo continuerà a far parlare di sé. Anche perché, d’ora in poi, non guarderete più alla frase “tinteggiare le case” con gli stessi occhi, con la stessa tranquillità e spensieratezza. Garantito.
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