Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Con un racconto che attraversa in lungo e in largo quasi cinquant'anni di storia, Martin Scorsese realizza un film che ha la potenza, il passo ed il lirismo per poter aspirare ad ergersi a capitolo conclusivo di un genere.
Con un racconto che attraversa in lungo e in largo quasi cinquant'anni di storia, Martin Scorsese realizza un film che ha la potenza, il passo ed il lirismo per poter aspirare ad ergersi a capitolo conclusivo di un genere: quel gangster movie 'classico' incentrato sulla criminalità organizzata negli Stati Uniti del dopoguerra di cui lui stesso è stato il capofila a partire dagli anni '70: lo fa - segnando ulteriormente la fine di un'epoca - con una produzione Netflix destinata principalmente alla fruizione online, dopo che l'alto budget richiesto aveva fatto recedere diverse case di produzione nel corso degli anni. Nel suo essere la mastodontica trasposizione in immagini (tre ore e mezza) di un romanzo (I Heard You Paint Houses di Charles Brandt) che attraversa i decenni, The Irishman presentava infatti la difficoltà tecnica di dover far ringiovanire di una trentina d'anni Robert De Niro (anche produttore), Al Pacino e Joe Pesci per ampi tratti della storia: il risultato del lavoro in CGI della Industrial Light & Magic, a tal riguardo, è stato addirittura portentoso.
A narrare in prima persona una storia che parte dalle dinamiche interne alla malavita e passa per i suoi incastri con la politica per arrivare alla controversa sparizione del sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino), è il sicario Frank Sheeran (Robert De Niro), ad ottanta suonati, ridotto in sedia a rotelle dalla vecchiaia e con lo sguardo disincantato di chi sa di averne viste e fatte tante ma sa anche di esser vicino alla propria ora e di dover quindi iniziare a tirare le somme della propria esistenza. Lungi dal voler dare al proprio film un alone malinconico o peggio ancora nostalgico, uno Scorsese in stato di grazia, capace di gestire la complessità dell'intreccio con una naturalezza che ha del miracoloso, colloca anagraficamente nella 'terza età' la prospettiva di un racconto che, seppur nella prima parte sia 'canonicamente' convulso e ritmato, nella seconda (la migliore) rallenta e si fa riflessivo: e allora il tempo che passa, l'amore che svanisce, il rimorso per un tradimento, fanno da anticamera al pensiero della morte, che si avverte sempre più incombente e inesorabile (e non è certo un caso se l'apparizione di ogni personaggio secondario è accompagnata da una didascalia che indica come e quando morrà); tutto ciò senza voler mitizzare il 'cattivo', anzi, appunto, cogliendone se possibile - e paradossalmente - gli aspetti più umani e introspettivi.
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