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The Irishman

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su The Irishman

di lamettrie
5 stelle

Un film perfetto per tanti punti di vista, ma noioso. Lento, troppo compiaciuto, in cui Scorsese è manierista di sé medesimo.

A suo modo, un film geriatrico: intelligente, perché tratta un tema poco frequentato dal cinema (anche per ragioni “estetiche”: tra le moltitudini non vende la raffigurazione del futuro destino di tutti verso l’indebolimento). Ma intelligente anche perché illumina il passato di persone che han fatto poi della vitalità la loro forza. E che che ora sono condannati, dal fato e dalla natura e dalla storia, a non poter più goderne. La scena delle bocce è assai eloquente in tale senso: su persone cui è rimasto ben poco per godere della vita, quantunque fossero abituate a un potere vibrante.

Ma il film è anche, e soprattutto, fastidioso: per la compassatezza, che in più si riflette sulla lunghezza. 3 ore e mezza per un soggetto così potevano e dovevano essere ridotti almeno alla metà.

Poi, anche per altri aspetti il film incentrato sulla vecchiaia è fastidioso: primo, perché c’è un compiacimento dei vecchi arrivati, dei gangster che fanno i papi (e certo, la mafia è anche questo: esperienza, al servizio del potere privato e del male pubblico). Secondo: Scorsese, alla soglia dei 77 anni, sta celebrando se stesso e alcuni dei suoi attori feticcio, come De Niro e Pesci.

Gli attori sono tutti imbolsiti: ci sono troppo trucco ed effetti speciali. Non puoi far recitare l’80enne come il 30 (40enne?) padre di famiglia di bambini piccoli, di cui sembra più che altro il nonno, almeno all’epoca dei fatti narrati. Oggi ci sta che un 60enne abbia figli piccoli, ma raramente; ma negli anni 70 o 80, come nella scena al bowling, no (si consideri poi che lo Sheeran che lui interpreta nacque nel ‘20).

Il film pare anche un museo delle cere autocelebrativo pure per gli attori. Gli effetti speciali e il trucco potranno molto sul ringiovanimento; saranno anche usati per fare impressione e scalpore tra gli addetti ai lavori; ma l’effetto complessivo resta irrealistico e fastidioso. Esattamente come una signora ottantenne che vuole apparire com’era a trent’anni, grazie alla chirurgia estetica. Fa parlare, ma è meglio non vederla.

Ciò detto, trucco ed effetti sono eccellenti; così come luci, scenografie, costumi, con cui Scorsese si conferma maestro, specie nelle scene di folla, e non solo.

Ma gangster resta solo il cliché: senza la vitalità folle (mostrata in Quei bravi ragazzi, Casinò …), il dinamismo manca. I gangster sono più vecchi e saggi, ma meno credibili. E meno affascinanti, a loro modo.

Anche se, nel suo iniziale contenimento, la scena della reciproca richiesta di scuse fra Hoffa e Provenzano è memorabile, proprio per lo “spagnolismo”, tipico dei mafiosi: l’obbligo di vedere rispettato li proprio onore, che non tollera la minima menomazione.

Pacino (79 anni) recita in modo sublime. Il suo personaggio, Hoffa, non si ferma di fronte a nulla, per via dell’orgoglio. Le sue sfuriate sono indimenticabili, nel loro esplodere dopo il trattenimento.

Splendida è la recitazione, necessariamente più compassata e in sordina, del gregario De Niro (76 anni). Da non protagonista è ben raro vederlo (anche se qui appare protagonista, ma è ovvio che il focus è su Hoffa/Pacino), ma il comprimario lo fa alla perfezione, ragionevole e misurato. Ma resta pur sempre un assassino e delinquente incallito, che non sa e non vuole fare altro. Così la figlia giustamente lo rimprovera, senza riuscire a dirglielo: l’aspetto psicoanalitico del pessimo padre delinquente è gestito alla perfezione.

Joe Pesci (76 anni) certamente non demerita a fronte di cotanti colleghi, in una parte difficile, per la flemma classica del bosso mafioso. Ricorda “Il padrino”, in un modo molto vissuto, affatto costruito. Semplice, realistico. Come si dice “l’esperienza”. Un patriarca, a suo modo.  

Qui c’è tutta la classica visione del potere parallelo implicito di Scorsese, secondo cui solo i malvagi comandano. Coi loro modi. 

Infatti, la critica sociale resta assai interessante. Qui c’è la critica ai sindacati (così realistica in America, e non solo, ma non così scontata), al clientelismo, all’ipocrisia, alla scalata personale. Tanti potenti, prima o poi, finiscono uccisi, come conseguenza inevitabile per la loro arroganza e disonestà.

È un tratto tipico di Scorsese che qui egli gestisce in modo ancora migliore del solito: la realtà che conta, in apparenza, è un mosaico di potere dove tutti recitano una parte, per averne la fetta più grossa, con egocentrismo e intelligenza. Il potere è di chi è più furbo nell’essere arrogante. I miti, gli onesti e i meritevoli non faranno mai carriera.

Altro leit motiv, del regista di origini palermitane (che qui compie autocritica degna di nota), è l’affresco sugli immigrati: ebrei, irlandesi (sulla scia dell’immortale Gangs of New York), come specifica il titolo. Ma soprattutto gli italiani come lui: gli Wop, come urla Pacino. Gli italiani del sud così come spesso apparivano in America: dentro la classe dirigente grazie ai loro numeri, la loro intraprendenza e la loro arroganza. Ma pur sempre cafoni, ignoranti, violenti.

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