Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Festa del Cinema di Roma 2019 – Selezione ufficiale.
Ogni avventura, per quanto splendente sia (stata), ha un inizio e una fine. Lancia bagliori durante la fioritura, tocca il cielo con un dito, in casi speciali, quando la maturità raggiunge la sua acme, si colloca su un piedistallo e riesce a rinverdirsi, rimodulandosi sotto mutate spoglie. Infine, percepisce nell’aria il mutare dei tempi, sente il peso degli anni, capisce il momento e accetta di chiudere il cerchio. Di farla finita, una volta per tutte, con un’uscita in grande stile.
Ancora, ogni fase di un ciclo è contrappuntata da un temperamento peculiare, un tono che intrappola lo zeitgeist del periodo, personale e universale. Così, l’irruenza delle prime volte passa il testimone alla consapevolezza di chi è al culmine delle sue capacità e, quando il vento ha finito di fare il suo giro, intercetta il momento opportuno per riavvolgere il nastro, riprendere in mano le redini del discorso e apporre l’ultimo sigillo. Quello dopo il quale non c’è più nulla da aggiungere.
The Irishman è un pranzo di gala, un ultimo e prestigioso commiato di un gruppo di lavoro che ha scritto pagine intramontabili, tra chi non timbrava il cartellino da una vita (Joe Pesci e Harvey Keitel), chi nel cinema di oggi è un pesce fuor d’acqua (Robert De Niro), chi non c’è mai stato ma questa volta non poteva mancare per nulla al mondo (Al Pacino) poiché, in fondo, prima o poi doveva passare a fare un saluto e lasciare la sua impronta.
E poi c’è Martin Scorsese, la cui sensibilità ha dettato tutti questi passaggi. Da Mean streets a Quei bravi ragazzi, il vertice di Casinò e un lungo distacco, per ritrovarsi oggi, dopo tanti anni, riprendere in mano lo spartito e riscrivere la storia per un’ultima volta. Quella di sempre, solo che oggi non è ieri ed è necessario apportare dei correttivi. Quelli che The Irishman sciorina senza tentennamenti.
La carriera criminale di Frank Sheeran (Robert De Niro) parte dal basso. Sporcandosi le mani riesce a diventare l’uomo di fiducia del potente Russell Bufalino (Joe Pesci), occupando in questo modo un ruolo di prestigio con, per quanto possibile, le spalle coperte.
In breve, arriva a collaborare con il leggendario sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino), di cui diviene anche grande amico. Quando Jimmy pesta i piedi di Anthony Provenzano (Stephen Graham), Frank tenterà in tutti i modi di non fare deflagrare la situazione. Ma il destino di Jimmy è già scritto.
Duecentodieci minuti e non sentirli. The Irishman produce lo stesso effetto di un libro che prendi in mano per la prima volta di sera e da cui non riesci più a staccarti, nel quale ogni pagina t’invoglia famelicamente a passare alla successiva, senza indugi, e ogni interruzione dovuta a eventi esterni ti spazientisce. Fortunatamente, nel cinema non c’è quest’ultimo problema. Semmai, in questo caso specifico, ogni minuto che passa è una tappa di avvicinamento a quella fine a cui non vorresti mai assistere.
Di fatto, The Irishman è la pietra tombale (in tutti i sensi) di un genere. In Casinò, l’ultima sequenza prescriveva un futuro, questa volta no, non c’è più niente da dire, aggiungere o scrivere. Siamo al cospetto della summa di un filone. Dalla scalata dell’uomo qualunque, che comunque non ha nelle vene il sangue nobile per determinare la risoluzione delle questioni chiave, alle responsabilità che non si possono rifiutare, nonostante vorresti trovarti altrove o avere a disposizione un piano B. Dai meccanismi del mondo del crimine, descritti in maniera minuziosa, fino a quei segreti che vanno custoditi con gelosia e portati nella tomba, anche quando non c’è più nessuno da tradire, perché sono già tutti defunti. I misteri irrisolti (cosa c’è di più drammatico e angosciante di vedersi negata la verità?) e le rivalità, quelle che finiscono irrimediabilmente per eliminare dalla circolazione uno dei contendenti. I rapporti con la politica, ma anche la famiglia e l’amicizia, tra chi rimane costantemente al tuo fianco e chi non ne vuole più sapere nulla di te (cosa c’è di più doloroso di una figlia che ti rinnega?).
La sceneggiatura di Steven Zaillian (The night of) compie un lavoro esemplare lavorando sul saggio Ho ucciso l’irlandese.Jimmy Hoffa scritto da Charles Brandt, coadiuvata dal miracoloso e fluidificante montaggio di Thelma Schoonmaker, una sarta d’altri tempi, gestendo un dispositivo multilayer, con più piani temporali alternati senza accusare alcun sfarfallio.
Un dispositivo organico nell’interpolazione, nel quale gli eventi sono concatenati fornendo un affresco indelebile, con una moltitudine di personaggi e volti d’eccezione, per uno spettro che contempla segmenti da antologia, dalla gloria fino al crepuscolo, dalle digressioni dei dialoghi sopra le righe, fino a quelle molecole che segnano una vita intera e che, come tali, sono premiate dalla massima fermezza.
Perseguendo questo modus operandi, emerge un respiro profondo, esente da una qualsiasi forma di frenesia, proprio come accade all’interno dei capisaldi del romanzo americano.
Non per niente, The Irishman non è solo un’epopea criminale, ma anche un’avvolgente galoppata lungo la Storia americana, dal Dopoguerra fino alla questione balcanica, completa d’interstizi usualmente meno rievocati di altri.
Un affresco caleidoscopico, che parte dal basso per arrivare in alto e poi affrontare le conseguenze delle proprie azioni: una vecchiaia senza gloria, l’oblio riservato dalle nuove generazioni che non sanno nulla di nulla, la fine di tutto, di una storia che non emergerà mai.
Una lectio magistralis di Martin Scorsese, che rende tutto tremendamente facile pur disponendo di artifici tecnici, come segmenti sinusoidali, quelle gemme che mandano il cinefilo in brodo di giuggiole, e della tecnica del de-aging che, dopo un primo momento di smarrimento (nella prima incursione di Robert De Niro ringiovanito, sembra di essere catapultati in un brutto esperimento di Robert Zemeckis), mostra i muscoli (tanti soldi ben spesi) e dà frutti pregiati, annullando ogni interferenza.
Questa somma di qualità fanno di The Irishman un’opera senza ritorno (niente è cancellabile), un approdo definitivo, (probabilmente) un’ultima occasione per ammirare Robert De Niro e Al Pacino alla massima potenza, per rivedere Harvey Keitel e contemplare la magnificenza di Joe Pesci (per chi scrive, la sua è l’interpretazione migliore in assoluto all’interno del film e sarebbe scellerato non consegnargli l’Oscar per il miglior attore non protagonista).
Un film prezioso al pari di un tramonto indimenticabile, vissuto un attimo dopo l’altro fino al suo esaurimento, assaporandone ogni barlume di luce, nella consapevolezza che, d’ora in poi, non si potrà andare oltre. Forse nemmeno arrivarci vicino.
Epocale.
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