Regia di Antonio Albanese vedi scheda film
Esordio alla regia per Antonio Albanese, anche protagonista e co-sceneggiatore di questo “Uomo d’acqua dolce”, poetica e commovente storia di un uomo che perde tutti i punti di riferimento a seguito di un incidente che gli provoca la perdita della memoria. Quando dopo 5 anni Antonio torna a casa sua, conosce per la prima volta la figlia e trova la moglie che si è rifatta una vita…
Albanese porta sullo schermo alcuni suoi personaggi, che rivivono insieme nel protagonista, una sorta di “Forrest Gump” nella situazione di Totò di “Letto a tre piazze”, in fondo un semplificatore della realtà che sembra inadeguato in un mondo fatto di ritmi artificiali. L’avvento della semplicità, della sincerità, mista a pazienza e originalità fanno dell’“Uomo d’acqua dolce” una squassante panacea dell’artificio e della mistificazione: ce lo fa capire la valigia di Goffredo (Antonio Petrocelli), pregna di camicie e cravatte, utili a perseverare il suo status di “parassita della musica”; al tenore risponde Antonio (Albanese), col suo frack in prestito, sdrucito e tenuto su per 3 giorni e il suo spirito “underground” in fatto di interpretazione musicale.
L’architettura di “Uomo d’acqua dolce” ricorda fortemente i primi film di Roberto Benigni: sarà la partecipazione di professionisti (Cerami alla sceneggiatura e Piovani alle musiche) già collaudati dal toscanaccio, o la fotografia equiparabile, o ancora la percentuale di pose di Albanese rispetto al resto del cast, fatto sta che il film sembra realizzato prendendo un vecchio stampino già usato da Benigni e riproposto dopo qualche anno in salsa più poetica e meno comica; qualcuno ne demanda la cagione, a ragione forse, alla cosiddetta “gabbia Cecchi Gori”. Il film non è un capolavoro, eppure quel monologo finale, geniale, sui rischi che l’avvento di Antonio ha scongiurato in famiglia, vale da solo la sufficienza.
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