Regia di Vincenzo Musolino vedi scheda film
Tra il 1964 di Sergio Leone e il 1970 del primo “Trinità” sono apparsi i film più belli dello Spaghetti-Western. Non che dopo non ce ne fossero stati, ma in questo arco di tempo ce n’è la concentrazione più alta. In seguito alla grande invenzione di Barboni con Terence Hill e Bud Spencer si virò astutamente verso la commedia western, senza però capire che un conto è il prodotto meditato e creato ad hoc, e un altro è il prodotto dozzinale. Si va così sul viale del tramonto, lungo più o meno otto anni, dello Spaghetti-Western. Ma prima che tale inversione di marcia arrivi, registi e attori, produttori e sceneggiatori e cascatori e costumisti, maestri d’armi, scenografi e direttori della fotografia ci hanno regalato delle pietre preziose come questo “Chiedi Perdono a Dio, Non a Me” di Vincenzo Musolino. Il regista s’inserisce tra il Giulio Questi di “Se Sei Vivo Spara!” e il Cesare Canevari di “Matalo!”. Anche “Chiedi Perdono a Dio, Non a Me” è un western autarchico, che non si rivolge al cinema precedete, né ne ipotizza uno futuro. Usa i luoghi, i personaggi e i moduli conosciuti in base alla propria esigenza autoriale. Una manifestazione chiara e limpida di un western fatto non per piacere al pubblico quanto per piacere a chi lo fa. Un’espressione del sé che come in Questi e Canevari si sposa con una padronanza magistrale del mezzo cinematografico: dalla messa in scena alle inquadrature fino al montaggio.
Con un incipit che strizza l’occhio al nostro gotico italiano, il regista già ci fa sapere che la storia piegherà drasticamente sulla disperazione, sull’angoscia, l’afflizione, il tormento, la privazione di speranza e serenità. Si inzia con un povero messicano che piange il padre e la madre sulla loro tomba e giura vendetta. Il suo incessante pianto fa da contraltare alla maschera impenetrabile di un invecchiato George Ardison (un fantasma?) che gli racconterà la sua storia. Con un colpo di flashback ci troviamo in una terra bellissima, fotografata con idea, la cui messa in scena ci apre lo sguardo e il cuore. Il passo pesante, funerario e grave fa il paio con il tono mesto e disperato della narrazione. Il bravo protagonista George Ardison vuole vendicarsi dello sterminio della sua famiglia. Non conosce gli assassini, ma intuisce chi possono essere. Li trova poco alla volta, alla spicciolata, e li secca tutti fino al massacro finale. Il film di Musolino ripercorre così la traccia modulistica di uno dei motivi tra i più interessanti dello Spaghetti-Western: quello del “uno dopo l’altro”. Come in “Sentenza di Morte” o più avanti ne “Il Mio Nome è Shanghai Joe” il film è sviluppato sulla ricerca degli assassini e sul confronto/scontro con questi. Ecco che il Cjamango di Ardison (creatura nata proprio dalla penna di Musolino e che fa la sua prima apparizione nel 1967 in “Cjamango” interpretato però da Ivan Rassimov e diretto da Edoardo Mulargia) si incontrerà e scontrerà con due giocatori d’azzardo, poi con un povero messicano laido interpretato da Tano Cimarosa (la cui morte è così crudele che ai tempi fu tagliata per l’uscita nelle sale) e infine con Peter Martell, ubriaco, folle e forse anche perverso vista la mise non proprio pudica. Prima del massacro finale ecco che Cjamango ha la possibilità di realizzare la sua vendetta, anche se il mandante dello sterminio, il vecchio Stuart, viene fatto fuori insieme al figlio da Dick Smart, uno degli sterminatori della famiglia di Cjamango MacDonald. Così, Anthony Ghidra assurge a ruolo di primo cattivo nei panni del fratello Smart sopravvissuto all’ira di Cjamango. La trama, i personaggi e i moduli narrativi sono stupendamente immortalati in un film la cui messa in scena, le riprese distorte e angoscianti, la crudeltà dell’estetica scelta in regia e il montaggio accattivante, sono la cifra autoriale di Musolino “autarca” alla maniea di Questi e Canevari.
Una nota conclusiva sul massacro finale va fatta doverosamente. Non solo è una straordinaria pagina di montaggio, oltre che una bella pagina del nostro western italiano, ma apre un mistero. Solo chi conosce direttamente i fatti può illuminarci. La storia è questa: “Chiedi Perdono a Dio, Non a Me” è del 1968, e nel finale prevede un massacro antologico per mezzo di una mitragliatrice. Nel 1969 è uscito invece “Il Mucchio Selvaggio” del gigantesco Sam Peckinpah, che prevede la stessa scena di massacro ad opera di una machine-gun. Ora, senza star qui a fare discorsi profondi visto che il finale peckinpahniano ha elementi autoriali diversi da quelli, sempre autoriali, di Musolino, è giusto chiedersi soltanto questo: Musolino ha ispirato Peckinpah? Stando alle date sembrerebbe di sì. “Chiedi Perdono a Dio, Non a Me” è uscito nel ’68, come tra l’altro un altro western all’italiana che fa sfoggio di una mitragliatrice, forse anche per la prima volta, che è “Il Mercenario” di Corbucci. “Il Mucchio Selvaggio” dello zio Sam invece è stato esattamente girato tra il marzo 1968 e il giugno 1969, quando poi uscì in America, per uscire in Italia solo a dicembre del ‘69. Chiaramente la lavorazione di un anno è inverosimile, ma è anche un film di Peckinpah con tutto ciò che il suo nome comportava all’epoca in una produzione. Fatto sta che sembrerebbe proprio essere uscito prima il film di Musolino che quello del vecchio Sam. Però c’è un però che ci fa drizzare le orecchie. Quando Cjamango va a prendere la mitragliatrice va da un vecchietto suo amico che guarda casa si chiama proprio Sam. Dopo aver pattuito con lui le modalità del prestito della mitragiatrice lo saluta con un “Non ti dimenticheremo mai Sam”, che se non fosse che Peckinpah era ancora vivo tutto farebbe pensare ad una citazione postuma, un omaggio. Eppure nel ’68 il vecchio Sam è ancora vivo e vegeto. Questa citazione di Musolino è solo una coincidenza? Oppure il suo film si rifà direttamente a “Il Mucchio Selvaggio” e quindi la citazione è una lungimirante presa di coscienza di Musolino che già a quell’epoca intuiva che Peckinpah era il più grande di tutti e ci sarebbe mancato tantissimo? Eppure le date di lavorazione e di uscita non dicono questo.... Chissà.
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