Regia di Woody Allen vedi scheda film
Musical: passione proibita. Nanni Moretti è una vita che sogna di realizzarne uno (se ne parla in Aprile, che si chiude proprio col numero del cuoco trotzkista). Perfino Lars Von Trier ne ha dato una propria versione (Dancer in the Dark). Woody Allen si allinea sulle posizioni dell’Alain Resnais di Parole, parole, parole…: la vita è una canzone, ogni momento ha la sua melodia. E se è vero che il nostro background si rifà all’esperienza, dunque è ovvio che per dare sfogo alla nostra parte più celata si debba ricorrere al patrimonio canoro comune: Tutti dicono I love you si dirige esattamente in questa direzione. Del cinema alleniano ne è, se non la summa, almeno una bella rappresentazione: valzer di coppie in un’ottica di nevrotica serenità, è un film delizioso dal ritmo strepitoso.
Saltando da New York a Venezia fino a Parigi, sfidando le ricostruzioni cartolinesche e servendosi beffardamente degli stereotipi sentimentali (i canali di Venezia e la Senna a Parigi), Allen ragiona sull’amore senza farsi troppi problemi ma ponendosi domande dall’arcana risposta. Se non è lo stato dei rapporti di fine millennio, poco ci manca. E tutto è visto senza disperazione, ma con la buffa e lieta limpidezza che è congeniale al regista newyorkese: ogni cosa, appunto, si può raccontare, trasmettere, comunicare attraverso una canzone. La ronde sarà pure banale, come banali sanno essere i baci rubati lungo i marciapiedi di Manhattan o una passeggiata lungo la Senna, ma è talmente e follemente lineare da essere più che adorabile: riesce nell’obiettivo di far ridere (a parte la bizzarria del cantare all’improvviso, non si rimane impassibili di fronte a Drew Barrymore che ingoia l’anello nascosto da Edward Norton nel dolce; non si può non ridere alle battute di Alan Alda (il numero alla camera mortuaria è da applausi) riguardo Cristo da mandare in tribunale; o alle reazioni di Goldie Hawn quando la figlia pianta il fidanzato perché innamoratasi dell’ex galeotto Tim Roth, da lei stessa fatto uscire dal carcere), e anche in quello di deliziare (numeri musicali piacevolissimi, specie quello in ospedale, anticipato da un colloquio spassoso tra Norton e il personale medico).
Due particolarità da mettere in risalto: il ricorso ad alcuni effetti speciali funzionali (divertentissima la resurrezione del nonno, per non parlare dei commenti degli afflitti parenti, ma anche la danza volante di Hawn con Allen sulla Senna è memorabile); e la tematica politica: c’è una critica spudorata ai repubblicani di destra (così vengono chiamati), personificata dal figlio dei democratici di sinistra Hawn e Alda, bacati da un’insufficienza di ossigeno al cervello, ma anche i radical chic non sono risparmiati (Hawn si batte per qualunque causa persa, dalle balene ai delinquenti). Un film pazzo e delizioso come i musical più riusciti, con un finale (preceduto dal party in onore di Groucho Marx, in cui tutti gli invitati si mascherano con baffi e occhiali tondi), come già detto, di elegante simpatia: l’amore è sempre l’amore e può resistere anche senza il matrimonio. E a ben pensarci è proprio il matrimonio e le sue disavventure uno dei temi del cinema alleniano degli anni novanta (da Misterioso omicidio a Manatthan a La dea dell’amore, e qualcosa c’entra la rottura con Mia Farrow). Il regista Allen è così generoso da non lasciare troppo spazio all’attore Allen e alle sue fisine: e con un cast del genere, intonato in tutti i sensi, è più che comprensibile.
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