Regia di Kiyoshi Kurosawa vedi scheda film
Far East Film Festival 20 – Udine.
In un duello, chi riesce a compiere la prima mossa parte in una condizione di vantaggio. Allo stesso modo, qualora un’entità aliena approdasse sul nostro pianeta anticipandoci sul tempo, è chiaro che avrebbe il coltello dalla parte del manico.
Tanto cinema ha già trattato l’argomento. In maniera fracassona (Independence day), filosofica (Annientamento) o lasciando ampi margini di manovra alla vena dissacratoria (Mars attacks!). Sotto qualsiasi veste, il pericolo è palpabile e con Yocho, Kiyoshi Kurosawa ne fornisce una versione autorevole, raffigurando il nemico in modo tale da rendere inefficace - per non dire superflua - ogni forma di difesa.
Mentre il cielo manifesta strani presagi, Etsuko (Kaho) nota un comportamento insolito in suo marito Tetsuo (Shota Sometani). Nel frattempo, c’è chi ha perso la nozione di famiglia, come se qualcuno l’avesse sottratta di soppiatto.
Di fatto, gli alieni si sono già impadroniti di alcuni corpi, al fine di assimilare e comprendere le principali emozioni umane.
La loro silenziosa ascesa pare irrefrenabile.
È arduo pensare a un futuro prossimo più torvo di quello paventato da Kiyoshi Kurosawa in Yocho. Disponendo un impasto di tipo relazionale e filosofico, senza ricorrere a effetti speciali, ci dà per spacciati, annichilendo all’origine ogni forma di difesa preventiva, con un fulcro sedimentato nelle basilari funzioni umane.
Da qui, l’impostazione prevede una presenza extraterrestre che utilizza i corpi umani come contenitore (vedi L’alieno) per depredare i concetti centrali della vita, procedendo alla loro assimilazione, cercando di carpire i pensieri per insinuarsi sottopelle, a cominciare dalla famiglia, uno spazio tematico storicamente caro al cinema giapponese.
Una strategia di conquista allocata in un congegno – giustamente – freddo, con il terrore che si materializza negli occhi: gli alieni sono tra noi, ma nessuno può fermare la loro progressiva e silente avanzata. Una condizione angosciante che scardina ogni difesa immunitaria, aggredendo i sentimenti per fortificarsi, senza lasciare alcun barlume di speranza.
Per oltre due ore, Yocho fa affidamento su una fisionomia ferrea, non fa trapelare nulla oltre lo stretto indispensabile ed economizza i dialoghi con misura, lasciando dapprima attoniti e poi sgomenti.
Proprio in virtù di un’organizzazione formalmente intransigente, la chiusura appare stridente, mostrando un’involuzione tale da obbligare a porsi degli interrogativi.
Dopo un corposo percorso, con tante emozioni prese – e depredate – è possibile rinculare in una parziale soluzione improvvisamente traballante? Tanto più poiché appare inoculata con una superficialità che il film non aveva nemmeno sfiorato in precedenza?
Un’ultima fase che apre la porta a dubbi spiazzanti, che il regista avrebbe potuto tranquillamente raggirare, per quanto il concetto portante rimanga lapalissiano: siamo destinati all’estinzione. Una verità raggelante dalla quale non esiste una via di fuga, un groppo in gola che ostruisce il passaggio di ossigeno.
Imperfetto, comunque opprimente e mappato con accortezza (atto conclusivo escluso).
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