Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
Tra la ricerca assidua del realismo ed una resa estetica continuamente in tensione verso la perfezione formale, il capolavoro di Cuarón.
La recensione che segue la trovate anche sul mio blog.
Città del Messico, quartiere di Colonia Roma. Il regista Alfonso Cuarón ritorna tra le strade della sua terra natia per raccontare le vite di persone semplici, delle loro strade piene di vita e musica, ma che nascondono i mali comuni di una società che sembra, erroneamente, accontentarsi della semplicità. Roma apre e chiude la messinscena sulla stessa banda da parata, nell’apparenza di un non cambiamento, quando in realtà la cinepresa dell’autore scava nel solco di una famiglia basso borghese in crisi e nelle vicissitudini della sua domestica per tornare a rappresentare ciò che tanto bene già gli era riuscito: il confronto ed il superamento dei traumi sentimentali.
A metà tra la ricerca assidua del realismo, con la scelta di molti interpreti semiprofessionisti ed un minimalismo diegetico proprio delle situazioni di tutti i giorni, ed una resa estetica continuamente in tensione verso la perfezione formale, con un bianco e nero che vuole appiattire ed astrarre l’opera verso simbolismi ed omaggi cinefili e autobiografici, Roma si configura come una matrioska sia a livello concettuale che scenico: se la narrazione ciclica, come già scritto atta a rimarcare la presunta staticità sociale ed individuale dei protagonisti, si esprime attraverso la riproposizione di situazioni analoghe, i vari possibili livelli interpretativi si esplicitano nei fondali quasi bidimensionali delle scenografie, non a caso sfondati da un oggetto lanciato da un figlio preda della rabbia, della passione, il vero soggetto di tutta la filmografia di Cuarón.
L’autore torna ai fasti del suo capolavoro Y tu mamá también nella capacità di rendere la passione umana, carnale, poetica: il suo è un cinema erotico, in cui le vibrazioni tra i corpi attoriali si rendono palpabili e rivelano seducenti. Le vie di Città del Messico sono parte dei personaggi e si evolvono con loro attraverso dei grandi shock emotivi: i terremoti e le rivolte sono le controparti sociali della perdita di un figlio o dell’abbandono di un padre e marito. E se a conti fatti tutto pare ristabilirsi, è solo grazie al travaglio introspettivo dei soggetti e alla forza dei personaggi femminili.
Ancora prima che un colto omaggio al cinema autoreferenziale di Fellini e rivoluzionario di Bertolucci (anche se qui la rivoluzione riesce a perforare la sfera privata e non è salvifica come in The Dreamers), ed oltre una visione nostalgica degli ambienti popolani (Cuarón in sala ci andava per fare porcherie con la fidanzata o, al massimo, per citarsi ironicamente in una versione anni settanta di Gravity), Roma è infatti una celebrazione delle donne, che con l’amore e la tenacia danno la vita e tengono insieme le famiglie, in contrapposizione agli uomini che fuggono e distruggono.
Il regista messicano, con questo suo ultimo lavoro, ha definitivamente abbandonato la forma grezza e sporca delle sue prime opere per sposare la causa del realismo magico, del quale l’amico Alejandro Iñárritu è il più conosciuto esponente; ma questo passaggio stilistico non lo ha portato a lasciarsi alle spalle il suo talento descrittivo della natura umana. Roma è il film più compiuto di Alfonso Cuarón, quello in cui si denota la completa maturità nella consapevolezza del mezzo registico, in cui la poesia alza lo sguardo dalle strade di Colonia Roma verso gli aerei in volo senza mai abbandonare la donna che il cielo lo vede riflesso solo nell’acqua con la quale pulisce i pavimenti.
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