Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
La telecamera fissa su un pavimento sporco, solcato da violenti getti d’acqua. Quella stessa telecamera che si solleva e segue la donna che fa le pulizie (ben più di una donna delle pulizie: protagonista, deuteragonista, coscienza e rifugio, vero angelo del focolare, Mary Poppins che accoglie su di sé la sofferenza e la trasforma in intimorita dolcezza) sino ad avvolgere gli ampi ambienti di una abitazione, a fasciarli, a renderli subitaneamente familiari. Fin dal vorticoso piano sequenza iniziale Roma si mostra per quel che è, per quello che vuole essere: un film ininterrotto flusso di memoria, opera che registra gli avvenimenti e li squaderna in totale obiettività, monumento a tutte le possibili madeleine del caso e della ragione, esso stesso madeleine che la non banale durata non può ridurre, contenere (quanti altri avvenimenti potranno esserci dopo, visto che Roma si chiude con un nuovo inizio, quanti ce ne sono stati prima, dai mondiali di calcio del 1970, alle Olimpiadi del 1968, all’appena antecedente massacro di Tlaletolco?).
Cuaron lascia la Storia sullo sfondo, al più registrandone il suo ingresso improvviso e violento nelle vite comuni, e le conseguenze spesso fatali di tale irruzione, e la relega ad un ovattato passaggio di studenti contestatori, ad una radio che gracchia notizie preoccupanti, ai discorsi un po’ annoiati durante un Capodanno. La Storia è lì, prosegue, fa male, uccide o scuote più di un terremoto in un reparto di maternità; ma le storie vanno avanti, le famiglie si sfasciano a prescindere, cercano di trovare nuovi equilibri (e forse li trovano, quiete dopo la tempesta, quegli equilibri preannunciati dalla magia, equilibristica appunto, del professor Zovek, cui tiene testa soltanto la piccola e fragile Cleo che chiude gli occhi eppure si mantiene dritta, e forse è proprio il chiudere gli occhi il segreto), i bambini giocano, vanno al cinema, comprano i colorati palloni con l’elastico (se mi è consentito, una personale meravigliosa madeleine), litigano, ridono, piangono, crescono, le macchine passano per le strettoie oppure, quando non ce la fanno più, si cambiano, i cani continuano ad abbaiare ed a lasciare ricordini sui pavimenti (e vai con altra acqua, altri lavacri, la meraviglia di Roma sta anche nella iterazione dei piccoli innocui rituali del quotidiano, come le colazioni ed i pranzi).
L’aspetto che più colpisce di Roma è il totale dominio espressivo della materia: la telecamera febbrile che accompagna, contrappunta, giustappone, sobbalza, ma anche registra senza commentare, realizza piccoli ed intensi reportages di una famiglia e di una nazione (una famiglia/nazione), come nell’inquadratura fissa al cinema (l’assunzione di responsabilità ovvero lo smarcarsi improvviso da essa reso in forma totalmente anodina e non per questo meno spiazzante) o nello straziante piano sequenza in una sala parto dominata dal caos ma infine chiusa e silenziosa ad accogliere un dolore. È il rielaborare l’ordinarietà dandole una forma, stilizzandola, rendendola parte di un tutto o forse facendo di essa un tutto tout court, è il renderci consapevoli che la forza dei ricordi può gettare luce sulle piccole grandi oscurità, che il collage di storie di tutti giorni (cfr Riccardo Fogli ma anche no) crea un affresco imponente, un arazzo di vita, un vero e proprio ciclo pittorico dipinto con i colori della normalità. Cuaron parte da un soggetto esile e scarno, lo nutre a saltelli mentali e temporali, lo riveste della polvere della memoria (non necessariamente soffocante), gli dona l’elettricità dell’emozione, infine lo sublima in qualcosa (che è un film ma anche una dichiarazione d’amore per la vita e per il cinema, e per il modo con il quale il cinema può raccontare la vita) che ha le stimmate del capolavoro.
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