Leone d’oro a Venezia due mesi fa, il film è stato, prima e dopo il premio, al centro di polemiche interminabili* che non ne hanno mai messo in discussione, tuttavia, la qualità straordinaria, universalmente riconosciuta.
Quest’ultima opera di Alfonso Cuarón aveva avuto una lunghissima gestazione: il regista messicano ha dichiarato più volte che da almeno dodici anni sognava di realizzare un soggetto che, ripercorrendo la storia della propria infanzia a Città del Messico, nel quartiere residenziale della borghesia chiamato ROMA, facesse rivivere il clima di convivenza gioiosa nella grande casa familiare, fin tanto che era stato presente, sia pur per brevi periodi, il padre, brillante professionista, che un giorno, fingendo un viaggio di lavoro avrebbe lasciato per sempre quella dimora e quegli affetti.
Siamo nel 1971, anno cruciale per il Messico, alla vigilia della feroce mattanza di più di cento studenti che manifestavano per i diritti civili **, che avrebbe coinvolto direttamente due delle quattro donne della famiglia: la nonna e la giovane Cleo, la tata mexteca (memorabile Yalitza Aparicio), sfiorate dall’eccidio mentre si trovavano in un negozio di mobili.
“Il mio film è il più autobiografico possibile, diciamo che l’80, 90% di quello che vediamo viene dalla mia memoria e dalla storia del personaggio vero che ha ispirato Cleo, la tata che per me era come una mamma […] quando cresci con qualcuno che ami, non metti in discussione la sua identità. Ora da adulto ho cercato di vedere Cleo come una donna di origini indigene, appartenente alla classe operaia, allora era solo lei” (dalle dichiarazioni del regista rilasciate a Chiara Ugolini)
Nella grande casa, dunque erano rimaste quattro donne (la madre, la nonna e due inservienti indigene di origine mexteca), oltre ai quattro bambini e al cane: al loro coraggio, dunque, il compito di affrontare la difficile nuova realtà, nella consapevolezza di essere sole, come spesso accade, nei momenti difficili e dolorosi della vita.
Era sola Cleo, lasciata a se stessa non appena aveva detto al suo Firmin della gravidanza; era sola la nonna, la prima a soccorrerla e a starle vicino durante la terribile giornata della repressione anti-studentesca; era sola la madre tradita, che aveva dovuto portare al mare i suoi quattro bambini per informarli (impossibile dimenticare i loro singhiozzi, mentre il regista lascia in primo piano lei e le altre donne) dell’allontanamento del padre, che intanto, da beato incosciente, si stava portando via i suoi mobili, i suoi oggetti e i suoi libri.
Con tutti loro avrebbe condiviso il proprio futuro anche l’altra inserviente mexteca, che si occupava della cucina, delle scorte e, insieme a Cleo, della pulizia della casa, sempre allegramente disordinata e sporca, poiché i piccoli ne occupavano interamente tutti gli spazi, lasciando, come spesso accade, in ogni stanza, i loro giochi, i loro abiti, i loro quaderni, le tracce della loro presenza e del loro passaggio, mentre il cane, riottoso al guinzaglio, lasciava un po’ dappertutto le sue cacche.
Su Cleo, soprattutto, però, si appunta l’attenzione di Cuarón, che ci ha dato di lei un ritratto molto complesso; a mia memoria, uno dei ritratti femminili più veri e profondi della storia del cinema.
Fin dal suo esordio, il film ci appare come un’opera di grande bellezza formale, qualche volta persino un po’ compiaciuta (ma il difetto è molto lieve), molto citazionista e, così è parso a me, ma non solo a me, un poco autocitazionista.
Se la ricostruzione del passato mantiene pressoché sempre i toni dell’elegia commossa e talvolta ironica, non mancano i momenti di alta drammaticità, asciutta e dolorosissima, come quelli dell’eccidio, o quelli del parto drammatico di Cleo e del tormentoso senso di colpa che ne connota il difficilissimo rapporto con la maternità, che si realizza pienamente, invece, nel suo speciale rapporto coi piccoli di casa, accuditi tutti con amorosa pazienza e abnegazione (grandi le scene del loro salvataggio nel mare in tempesta, fortemente simboliche del suo ruolo protettivo e indispensabile in quell’anno per tutti terribile e decisivo).
La volontà del regista, quanto mai opportuna per ricostruire un’epoca così lontana nel tempo, di girare il suo Amarcord in un luminosissimo e giustamente appena ingiallito bianco e nero sembrava un ostacolo insormontabile ai produttori americani a cui egli lo aveva proposto. Fu Netflix a credere nel progetto e a garantire i finanziamenti e gli attori necessari al suo compimento, che diventò, allora, molto veloce: meno di due mesi, ciò che, insieme alla rapidità del montaggio e alla eccellente professionalità degli interpreti, tutti molto bravi, ma poco noti, permise di contenerne i costi senza penalizzarne la bellezza e il contenuto emozionale.
Il film è stato visibile per tre giorni nelle sale italiane, (3-4-5 dicembre) scelte dalla distribuzione di Il Cinema Ritrovato (Cineteca di Bologna), per concessione di Netflix che lo trasmetterà dal 14 dicembre agli abbonati della sua piattaforma. Qualche sala continua a programmarlo.
Senza entrare nel merito della diatriba, che la brevissima durata della programmazione ha rinfocolato, faccio presente che solo un grande schermo e l’attrezzatura necessaria per raccogliere i sofisticati effetti sonori del film, molto bello in ogni caso, può restituirne per intero la grande suggestione! È un invito a non esitare a vederlo.
*Le contestazioni, tutt’altro che irrilevanti, riguardano il futuro stesso del cinema, per le ragioni molto chiaramente espresse su alcuni siti Web già segnalati, che ora ripropongo:
https://www.internazionale.it/bloc-notes/francesco-boille/2018/09/11/mostra-venezia-premi
https://www.internazionale.it/bloc-notes/piero-zardo/2018/09/13/netflix-che-bel-problema
**La strage del 10 giugno fu perpetrata da squadre paramilitari, a sostegno della polizia, che massacrarono a freddo più di cento studenti fra quelli che manifestavano per i diritti civili, inseguendoli nei negozi, nei portoni e negli appartamenti dove si erano rifugiati per sfuggire alla polizia, proprio nel quartiere ROMA.
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