Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
Venezia 75. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Attraverso un bianco e nero cinereo il figliol prodigo Alfonso Cuaron ridona vita alla Città del Messico del 1971 tornando a riflettere, lontano dalle luci abbaglianti di Hollywood, sull'essenza del proprio paese, del quale ricrea atmosfere tragicomiche sia pubbliche che private. Cuaron si ispira al proprio background, alla propria infanzia e alle donne che l'hanno influenzata per realizzare un incantevole ritratto d'epoca mantenendo però in disparte il proprio ego per concentrare l'attenzione sulla sua creatura è non su di sé. Una lezioncina di umiltà che sarebbe servita ad altri autori in concorso. Non mi dilungo. Vorrei però che non si insinuasse in chi legge un pericoloso malinteso. Non è certo l'umiltà che nasconde la mancanza di talento quella sfoggiata da Cuaron, ma l'umiltà che serve a disegnare un ritratto d'interno nel quale i personaggi costituiscono un unicum famigliare e sociale senza personaggi di spicco e pretese autobiografiche nette. Talento ce n'è parecchio in questo film. La tecnica è elevata tanto da avvalorare in me la sensazione che la confezione sia addirittura migliore del contenuto.
Il lavoro sul sonoro catapulta lo spettatore all'interno della cucina dove lavorano Cleo e Adela come nel cortile ove riecheggia il latrato del cane ed il clangore delle lamiere dell'auto. Il soundtrack di "Roma" è una collezione di suoni che riproducono i mille rumori della casa, il chiasso dei giochi, il fragore degli scontri in strada, la violenza delle onde dell'oceano. Lo sciacquio prodotto dalla ramazza, il cinguettio dell'uccellino in gabbia, il rumore dei piatti anticipano le immagini e le inquadrature, e come "gocce di memoria" collettiva, evocano atavici ricordi che tessono una tela di pregevole realismo.
La luce intensa degli esterni lascia spazio ai luoghi famigliari torniti da giochi d'ombra che rendono poesia il gesto semplice e banale di un esercizio ginnico nella penombra della stanza delle serve. Cuaron ci dà l'impressione, con i suoi movimenti di macchina, che siano i personaggi a seguire la telecamera, non il contrario, in un esercizio di stile che contempla una straordinaria libertà di movimento. La macchina ruota sul proprio asse per riprendere tutto ciò che succede nella casa seguendo le persone e i gesti quotidiani con disinvoltura e fluidità pur nella semi staticità del mezzo di ripresa. Cuaron è proprio agio con la mdp ed i ritmi blandi delle giornate di Città del Messico si riverberano nelle immagini. Già dai titoli di testa è evidente tutto ciò. Cuaron punta l'obiettivo sul pavimento del cortile. C'è una donna che sta lavando il selciato ma non si vede. La sua presenza è solo percepita. Quando l'acqua, gettata dal secchio, raggiunge l'inquadratura e decanta lentamente, riflette il cielo tra i cornicioni delle palazzine. Al secondo secchio che finisce in terra un aereo in movimento si riflette nella pozzanghera. Non ha fretta il regista di rappresentare la realtà che conosce e chiede la stessa pazienza al pubblico che guarda. La pazienza fa rima con rassegnazione. Quella innata nei discendenti delle civiltà precolombiane è ciò a cui Cleo deve aggrapparsi nel momento in cui il suo uomo la lascia sola e disperata mentre oscuri presagi aleggiano su di lei come cocci di una tazza in frantumi o di un controsoffitto che si sbriciola su una culla in ospedale. Ma la stessa rassegnazione diviene scelta obbligata anche per la signora Sofia che della famiglia diviene la colonna allorché il marito la lascia per un'altra. Ci sono molti contrasti in questo racconto: la razionalità ispanica e le superstizioni mixteche; la disparità di classe tra l'alta borghesia e le sguattere a servizio. Ma c'è anche amore in questo film: quello non corrisposto di Cleo, quello tradito di donna Sofia, quello figliale verso i bambini, quello del regista per la propria terra. E ci sono anche speranza e solidarietà ad abbracciare i membri della famiglia che fanno quadrato intorno al loro focolare domestico senza distinzioni di status o di genere. Una sensazione che all'autore messicano è rimasta impressa negli anni tanto da riportarlo nel suo vecchio quartiere, nella sua vecchia città, chissà magari a bordo di quello stesso aereo che solca il cielo finale e che sembra incoraggiare Cuaron a raggiungere il proprio "luogo sicuro" ogni qualvolta la malinconia lo richieda.
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