Tra le perplessità suscitate dal cinema destinato a un uso esclusivamente casalingo c'è sempre stata quella relativa ai condizionamenti causati dalle dimensioni del formato che secondo i detrattori obbligava i registi a cambiare i fondamentali del linguaggio cinematografico epurandolo da riprese in cui gli attori non fossero stati vicini alla mdp. A questo proposito la Mostra del cinema si inserisce nella perigliosa discussione proponendo un titolo come "Roma", fatto apposta per smentire la suddetta affermazione. Fra quelli destinati da Netflix alla kermesse festivaliera il film di Cuaron non solo è quello che meno degli altri sembra farsi influenzare da limitazioni di ordine tecnico stilistiche, ma risulta addirittura brillante nella scelta di molte delle soluzioni formali adottate per l'occasione.
A cinque anni di distanza da quello che era stato il suo più grosso successo, il regista messicano torna a Venezia, questa volta in competizione, con un film che solo in apparenza risulta più facile rispetto al precedente. Certo, affermare che un film basato sui ricordi della propria giovinezza sia più complicato della messa in scena di un naufragio nell'orbita terrestre appare esagerato anche perché "Gravity" riusciva a coniugare la verosimiglianza degli effetti speciali a un ritratto a tutto tondo dei suoi personaggi. E' peraltro vero che anche "Roma" racconta in qualche modo la metabolizzazione di un lutto, quello del regista bambino e dei suoi fratelli nei confronti del padre medico che li ha abbandonati, come pure quello di un intero paese - il Messico - che nell'estate del '71 si trovò a piangere la morte di alcuni studenti uccisi dalla polizia mentre manifestavano il proprio dissenso verso la politica repressiva del governo.
La cosa però più interessante di "Roma" (titolo che prende il nome dal quartiere borghese dove Cuaron viveva da bambino) è il modo con cui il regista decide di raccontare la storia. Il nodo centrale è la scelta di esserne protagonista per interposta persona, e cioè attraverso il personaggio di Cleo la tata indios che si prese cura di lui e dei suoi fratellini. Lo spostamento del punto di vista narrativo non solo permette al regista di allontanare gli eccessi di emotività che di solito appesantiscono l'oggettività del resoconto, ma gli mette sul piatto d'argento il principio al quale informare la struttura del lungometraggio. Il fatto di sostituire con Cleo coloro che dovrebbero essere i veri protagonisti di "Roma", per la maggior parte del tempo relegati sullo sfondo o ai margini del quadro, costituisce per lo spettatore la guida necessaria a raccordare le varie emotività del film. Succede, infatti, che, nelle varie sequenze, il tema centrale sia lasciato fuori campo e filmato con precaria visibilità, salvo senza però precludergli la possibilità di rientrare in gioco attraverso piccoli dettagli della sua fenomenologia.
Uno schema che si ripete non solo nelle situazioni di routine, ma anche nei momenti topici come possono esserlo la sequenza della manifestazione repressa nel sangue, di cui inizialmente sentiamo solo le grida, e gli spari che entrano dalle finestre del negozio in cui si trova Cleo e poi nella scena del parto in cui, nonostante i motivi di interesse siano legati alla sopravvivenza del nascituro rispetto allo stato di salute di chi lo ha messo alla luce, è della seconda che distinguiamo la sagoma e non del primo, mostrato volutamente sfocata. Più in generale, esiste il desiderio del regista di andare alla ricerca del tempo perduto ricreandolo non in modo compiuto ma attraverso le sensazioni suscitate dalle grida dei bambini, dal loro muoversi all'interno della casa, dai rumori della città che esplodono quando "Roma" decide di uscire dalla casa dei protagonisti per riversarsi sulle strade del quartiere affollate di persone e nella campagna desolata e brulla limitrofa alla città dove vivono poveri e indigenti.
Con un'operazione simile a quelle realizzata da Christopher Nolan per "Dunkirk", l'autore messicano fa dei personaggi delle figure prive di un vero e proprio spessore biografico - basti pensare a una delle sequenze introduttive in cui il padre è presentato senza mai mostrarne il volto, ma mettendo insieme una serie i primi piani su dettagli che gli appartengono - ma elementi complementari alla rievocazione di uno stato d'animo individuale e collettivo in cui in primo piano sono le sensazioni e i sentimenti delle persone che li hanno vissuti. In questo senso "Roma" più che mostrarci una storia ce la fa sentire, stimolandoci a parteciparvi con i nostri sensi, a partire da quelli che coinvolgono i nostri occhi perché il film di Cuaron, girato in un bianco e nero dal sapore metafisico, è innanzitutto un'opera da vedere, indipendentemente dal formato. Tra i candidati alla vittoria finale, "Roma" è un film che può servire a superare i pregiudizi nei confronti delle nuove piattaforme di distribuzione.
(pubblicato su ondacinema.it)
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