Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film
In concorso a Venezia75, ROMA è un percorso nella memoria
Il regista messicano premio Oscar (Gravity 2013) porta in concorso a Venezia75 ROMA, un percorso nella sua memoria:
"Il novanta per cento delle scene del film sono venute fuori dalla mia memoria, a volte chiaramente, a volte in modo più ambiguo. Quegli anni sono un momento che mi ha formato, ma anche un momento che ha trasformato il mio Paese, l'inizio di una lunga trasformazione del Messico. I personaggi che racconto esistono nella vita reale, sono persone che amo profondamente. Ho dovuto fare un viaggio attraverso i miei ricordi, nel labirinto della memoria. Questo vale anche per le conversazioni che metto in scena tra persone che erano lì davvero e che hanno vissuto quegli eventi con me".
Città del Messico, primi anni settanta.
Roma è il nome di un quartiere borghese dove vive una famiglia composta da Sofia (Marina de Tavira), madre di quattro figli e marito sempre assente, la governante Cleo (Yalitza Aparicio) e la donna tuttofare Adela (Nancy García García), queste ultime discendenti dei Mixtechi, popolo indigeno mesoamericano.
Il 10 giugno 1971 nel guscio ovattato di casa irrompono notizie disastrose, è il massacro del Corpus Christi, violenta repressione di una protesta studentesca da parte di un corpo scelto dell'esercito messicano che fece morti e feriti e cambiò la storia del Paese.
Cuaròn lascia ai suoi personaggi la loro lingua con le sonorità che contiene, l’appartenenza ai luoghi si avverte soprattutto nell’impasto sonoro che le voci tessono e la storia di un’infanzia oscilla spesso fra un dentro caldo e rassicurante e un fuori pieno di oscure minacce.
Le tre donne saranno chiamate dalla Storia del loro Paese a inventarsi nuove forme di solidarietà, e il racconto della memoria diventa filtro di quel recupero del vissuto che accompagna nel corso degli anni chiunque, andando avanti, senta riaffiorare tracce di quel che era.
Il tempo e la distanza danno forma a quelle impronte mnestiche, le nostre madéleines, e queste diventano il tessuto della vita, ne segnano la trama sottile.
E’ un bianco e nero di foto sepolte in vecchi album, col vecchio cane che abbaia al cancello e lascia ovunque tracce che la tata paziente lava a secchiate d’acqua; col frastuono allegro di una casa piena di bambini che rotolano per terra e aprono regali ai compleanni; col padre spesso assente che quando torna nel suo macchinone rombante si annuncia con un gran crescendo musicale e due fari sparati negli occhi. Presenza invisibile e fumante dentro l’abitacolo, la mdp ne segue pignola l’ingresso sapiente nello stretto androne di casa dove sfiora il muro senza fare un graffio alla carrozzeria.
Lui è l’uomo, il padre, il padrone a cui tutto riesce alla perfezione.
Non così alla madre che eredita il carrozzone dopo l’abbandono del marito e lo sbatte a destra e a sinistra per entrare buttando giù anche pezzi d’intonaco.
Cuaròn e il suo sguardo sulle cose minime che diventano massime, come il pianto silenzioso del figlio più grande (ma poi non tanto grande) quando la madre deve dare la notizia del padre che se n’è andato per i fatti suoi.
Ma nulla cambia, la vita continua, solo ci si stringe un po’ di più e si fa a meno dei mobili che lui ha portato via.
C’è il pancione di Cleo che cresce e la sua vocina sempre più sottile, quel corpicino di bimba nata morta e l’angoscia senza parole della ragazza che non sapeva quanto gli uomini possano essere farabutti. Lei non voleva che la bimba nascesse, non lo diceva neanche a sè stessa, ma un giorno non ce l’ha fatta più e questo è il suo dolore più grande.
E allora proprio lei, che aveva paura dell’acqua, quel giorno salvò dalle onde dell’Oceano i due bambini imprudenti, e fu come risarcire quel danno.
Quel giorno tornarono a casa tutti insieme felici in macchina, e la vecchia nonna li aspettava contenta perchè ci si stringe di più quando la vita dà colpi.
E’ la storia di un microcosmo che si allarga ad ondate all’esterno e poi torna al suo interno, corpi che galleggiano un po’ nel vuoto e infine si toccano, come in quella scena di Abbandonati nello spazio che i bambini vedono al cinema.
Piccole premonizioni di un futuro che avrebbe fatto del cinema il suo centro anche nello sguardo di bestia ferita di Cleo che cerca Fermin.
Lui le aveva detto che era bella, se l’era portata a letto e poi era sparito, quel giorno, dal cinema, quando gli aveva detto che era incinta mentre vedevano Louis de Funès.
Cleo sembra la piccola madre che salva l’umanità dall’estinzione de I figli dell’uomo, il cinema si faceva strada nel bambino che guardava, era un mantra che segnava la strada del futuro a partire dalla vecchia sala anni ’50 al centro della città, dall’aria piena di fumo e gli arredi vintage delle sale di quegli anni.
Il mondo allora era uno strano miscuglio di vita protetta nella grande casa e strade piene di traffico e piccole bancarelle di ogni cosa, dove all’improvviso ci furono gli spari, la gente che scappava, i morti, non si capiva bene cosa stesse succedendo, ma quei corpi erano là e non si potevano dimenticare.
E’ un inferno metropolitano filtrato dai ricordi di un’adolescenza lontana che la memoria ha fermato per sempre, quello di Cuaròn, ma è soprattutto un mondo di donne pazienti e un po’ malinconiche, di bambini che giocano, del caschetto bianco di una nonna che mai può mancare in una vecchia casa e di un grosso cagnone scuro che abbaiava contento quando arrivavano i grossi fari accesi del macchinone del padrone.
Roma è il pensiero d'amore alle donne della sua vita che ormai doveva diventare cinema.
www.paoladigiuseppe.it
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