Regia di Chang-dong Lee vedi scheda film
Otto anni. Tanti ne sono trascorsi dall’uscita del precedente film di Lee (Poetry). Tanti, troppi per non dare adito a sospetti di incipiente crisi creativa di un autore che forse si è per questo motivo preso una lunga pausa e non al contrario perché aveva troppe cose da dire e doveva solo trovare il modo migliore per esprimerle.
Per quanto riguarda il film, ultra-elogiato sin dalla sua presentazione al Festival di Cannes, altro non è che un pretenzioso ed estremamente auto-indulgente pastrocchio prodotto in pieno stile arthouse in modo tale che la stragrande maggioranza dei critici possano essere messi nelle condizioni di gridare comunque al capolavoro, a quanto pare convinti che l’inesplicabilità sia automaticamente indice di qualità.
Ma Burning più che enigmatico, è insulso, più che profondo, banale (come dimostrano il conflitto interno al protagonista [che in pratica vorrebbe solo fare più sesso]; la figura del ricco afflitto da “noia esistenzialista” [sorta di Gatsby asiatico] che scruta il mondo intorno a sé con suprema indifferenza e altezzosità, quasi come se qualunque altro essere umano non si meritasse altro che essere considerato alla stregua di una formica; per non parlare poi dei dialoghi che sconfinano abbondantemente nel ridicolo [tra reiterati concetti di “Grande fame” e “piccola fame” nel mezzo dei quali si perde di vista il fatto, ma del resto si tratta di qualcosa che fanno la maggior parte degli esistenzialisti, che il senso è una proprietà del linguaggio {ed anche, talvolta, delle umane creazioni artistiche}, una proprietà della mente umana che cerca di mettere un ordine al reale, e non certo delle cose del mondo, che al massimo hanno una funzione. Dunque, tra le altre, anche tutte le domande circa il “senso della vita” hanno grammaticalmente senso ma scarsa sostanza effettiva e alcuna risposta, e sprecare la propria breve esistenza facendosene incatenare si rivela non solo un esercizio in futilità ma una grandissima perdita di tempo]).
Si tratterebbe di un film “magnetico”, è stato scritto e detto. Più che altro è lentissimo e allibente, nel senso che fin dai primi minuti porta inevitabilmente a chiedersi dove voglia andare a parare, salvo poi scoprire l’arcano: da nessuna parte (e alla seconda scena di masturbazione nel giro di mezz’ora si comincia seriamente a perdere la pazienza).
Quando finalmente qualcosa nella narrazione pare muoversi (ovvero, nell’ultima parte) lo fa debolmente e ancora una volta in modo maldestro (col protagonista Jong-su che parte e si lancia in una eccitante tour di tutte le serre abbandonante del circondario) sino ad uno scontato climax finale che ancora una volta perde totalmente di vista il rigore narrativo (SPOILER: perché diavolo, dopo essersi visto pedinare [perché è impossibile che non l’abbia visto] Ben decide comunque di incontrare Jong-su in un luogo desolato? FINE SPOILER).
Naturalmente, va da sé che tutte queste rimostranze nei confronti della “trama” acquisirebbero maggiormente senso nella recensione di un film normale degno di questo nome che abbia uno straccio di narrazione, mentre nel caso di un film come Burning bisogna ammettere che, data l’insulsaggine dell’insieme, possibili buchi assumano quasi la statura di elementi di perversa quanto granitica coerenza.
E la possibile soluzione degli eventi, ammesso, ancora una volta, che di “eventi” si tratti e che una soluzione ci sia, è piuttosto prevedibile (cosa avrebbero detto la maggioranza dei critici se la solita storia OPS, SPOILER: del solito serial killer disturbato fosse stata raccontata linearmente? Probabilmente non si sarebbero fatti altrettanto facilmente abbindolare FINE SPOILER).
Come se tutto ciò non bastasse, il trattamento riservato ai personaggi femminili all’interno del film è alquanto ambiguo. Se è vero che ci si preoccupa di sottolineare le difficoltà di essere donna in un paese come la Corea del Sud (ma lo stesso discorso vale per molti altri paesi nel mondo), è anche vero che tali brevi riflessioni paiono inserite in virtù di una forse recondita consapevolezza da parte dell’autore di aver deciso di trattarle lungo tutto il corso del film in modo per l’appunto sibillino (Hae-mi, ad esempio, non ha alcuna funzione narrativa che non sia quella di fungere prima da oggetto di soddisfacimento fisico per l’uomo, poi di desiderio, d’insulsa gelosia e alla fine di cronica ossessione [in pratica, serve solo a sviluppare la psicologia del protagonista]: è decisamente il personaggio meno approfondito ed anzi viene dipinta, in sostanza, come una scioccherella [si tenta di far versare qualche lacrimuccia ai più sensibili con la “rivelazione” circa il suo reale stato umano, affettivo e finanziario ma è tutto troppo poco e troppo tardi]; e comunque anche almeno un altro personaggio femminile lascia molto perplessi: ovvero la madre che non vede il figlio da 16 anni e ciononostante lo ignora quasi del tutto, passando il tempo a sogghignare allo schermo del cellulare [ma quanto egoiste, egocentriche e vanitose sono queste donne?]).
In definitiva, pare corretto affermare che, come troppo spesso accade, critici e parte del pubblico si siano fatti abbindolare da un vecchio trucco di cui sono pieni zeppi i manuali di storia dell’arte contemporanea. Trucco che consiste sostanzialmente nel produrre un qualcosa talmente privo di senso che proprio per via di questa sua completa vacuità e imperscrutabilità riesce stranamente a far supporre agli osservatori di possedere una qualche profonda e arcana genialità, supposizione che invece deriva unicamente dal tentativo raziocinante da parte degli stessi di convincersi di non essere stati presi per i fondelli e, ad esempio, di non aver sprecato due ore e mezza della propria esistenza a vedere il più grande e assoluto nulla.
Bravi, in ogni caso, gli interpreti (e la Jeon è addirittura un’esordiente assoluta) e sicuramente affascinanti un paio di scene (quella della danza sulle note di Miles Davis di una libera e malinconica Hae-mi; e quella, brevissima, della serra in fiamme: questa sì un’immagine magnetica) che però si perdono irrimediabilmente nel mare diluito di noia (le parentesi inutili sono un’infinità) e scempiaggini del film nel suo complesso.
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