Regia di Spike Lee vedi scheda film
Spike Lee torna alla sua forma migliore con questo film, che ha vinto il Grand prix a Cannes assegnatogli dalla giuria presieduta da Cate Blanchett. Non è sullo stesso livello del suo acclamato capolavoro “Fà la cosa giusta” o di un altro memorabile film come “La venticinquesima ora”, forse è un po’ lunghetto, ma il regista nero torna a mettere in luce tutto il suo potenziale dopo una serie di film a quanto pare meno riusciti. La tematica è sempre quella razziale, indubbio asse portante di tutta la sua filmografia, ma senza la demagogia di cui Lee stesso talvolta sembra essere uno specialista in certe sue polemiche piuttosto sterili che ha portato avanti contro colleghi come Eastwood, Tarantino, contro l’Academy ecc. (anche con gli italiani, come si sa, non sempre è stato benevolo). La storia di Ron Stallworth e della sua clamorosa infiltrazione nel Ku Klux Klan è vera, pur con qualche inevitabile aggiustamento, e fa riflettere lo spettatore fino a divenire in certi punti piuttosto inquietante. Alcuni detrattori rimproverano a Lee un approccio da commedia che ridurrebbe a macchiette i personaggi, ma nel caso degli adepti del Klan, cos’altro poteva proporci Lee se non caricature, con il politico interpretato da Topher Grace che ci mostra il volto più becero e sinistro, ma allo stesso tempo ridicolo, del puritanesimo americano? Mi è piaciuta molto la rievocazione degli anni 70, a mio giudizio attendibile pur con qualche particolare su cui si potrebbe discutere, la colonna sonora di Terenche Blanchard che recupera hit molto gradevoli come “It’s too late to turn back now” dei Cornelius Brothers, la fotografia che non manca di ricerca visiva, come nella scena del comizio del leader nero verso l’inizio dove i volti dei fratelli vengono a comporre immagini che sicuramente vogliono magnificare la bellezza della razza afroamericana. Ci sono parecchie scene girate veramente bene, soprattutto quella in montaggio alternato del discorso di Harry Belafonte e del rituale iniziatico del Klan, qualche lungaggine che si poteva evitare nella parte centrale, un cast ben diretto dove fa una buona figura il figlio di Denzel Washington, un Adam Driver ormai attore dal talento riconosciuto, bravi caratteristi fra cui il citato Topher Grace, belloccio che sa anche dare buone caratterizzazioni se trova un regista che sa metterne a frutto il talento. Non un capolavoro, ma un segnale di grande vitalità per Spike Lee. Il titolo rifà il verso a “Nascita di una nazione” di Griffith, giustamente bersagliato dal regista, ma personalmente avrei evitato quella tripla k, pleonastica, e avrei scritto semplicemente “Black klansman”.
Voto 8/10
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