Regia di Spike Lee vedi scheda film
71 CANNES FESTIVAL 2018 - CONCORSO - GRAN PREMIO DELLA GIURIA
Ma l'orgoglio nero per Spike Lee si rappresenta (anche) sfoggiando improbabili capigliature cotonate da far sentire calvi artisti arruffati come Cocciante o Branduardi? Visivamente all'(ex?) gran regista parrebbe proprio così, tanto questa eccentrica, superficiale necessità esteriore appare urgente in questo film.
Un agente di colore dal fare indolente ed apparentemente sottotono, nell'entrare a far parte di un nuovo distretto in Colorado, decide di infiltrarsi in una congregazione di fanatici del Ku Klux Klan che sta organizzando un progetto punitivo piuttosto ambizioso ai danni della comunità nera; taciturno e apparentemente sin troppo riflessivo, l'uomo invece procede dritto al punto tanto che, una volta stabilito abilmente un contatto telefonico con il clan, si trova a dover necessariamente chiedere aiuto ad un collega bianco che ne imiti la voce e si presenti al suo posto per incastrarli poco per volta.
L'operazione, tutt'altro che semplice, riuscirà alla grande, ma le pressioni dall'alto impediranno alla polizia di far valere in giudizio le prove e le registrazioni in grado di incastrare i folli razzisti. Tutto serio? Tutt'altro.. .. piuttosto, a parer mio, tutto una farsa, con cui un Lee sbiadito nella narrazione (ma ancora, mi piace ammetterlo, ottimo direttore e coordinatore di gran belle sequenze) cerca e riesce a conquistarsi un pubblico - qui al festival in visibilio, tutto applausi a scena aperta - con spunti e argomentazioni che giocano sulla credulità e la pronta presa sull'emotivita' più esteriore ed epidermica della folla, da sempre condizionabile e atta a farsi trascinare.
Ben meno lucidità su registra sul piano di una coerenza seria di narrazione, e dunque a livello di lucidità di discorso, caposaldo costante dello stile e della tecnica stilistica dello Spike Lee degli '80 e '90.
Qui dentro al contrario, solo facile ruffianeria e una rappresentazione superficiale del popolo nero, descritto semplicemente come una massa di smargiassi con teste ricce oltre ogni limite di confine con la farsa. Non bastano le drammatiche e tristi immagini finali dirompenti di repertorio con protagonista le scellerate dichiarazioni dell'attuale controverso e biondo presidente americano (la cui capigliatura ridicola è coerente e proporzionata con le criniere corvine dei neri che affollano il film di Lee), per salvare la faccia ad un film che vuole colpire, ma gioca solo a fare il piacione e lo spiritoso.
E dal punto di vista delle interpretazioni, poca cosa ci appare la tesa scenica del figlio d'arte John David Washington, con quegli un po' distratti e distanti, quella espressione svanita da pesce lesso, e quella parrucca a cespuglio più fitto della gommapiuma che gli sovrasta il capo.
Decisamente meglio Adam Driver, alter ego fisico della voce del primo, pure lui piuttosto rilassato e spiritoso, ma certo più carismatico e in parte. Eccessivi e caricaturali pressoché tutti i restanti ruoli affidati ad attiri bianchi.
Tra i camei che non passano inosservati, riconosciamo pure quello di un roco ed austero Harry Belafonte, da tempo lontano dagli schermi.
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