Regia di Spike Lee vedi scheda film
Il tempo vola e il mondo cambia sempre più repentinamente, ma troppe questioni discriminatorie riemergono ciclicamente, come se la memoria non esistesse, a parte quando fa comodo. Chiaramente, cambiano alcuni termini e i soggetti interessati sono – di volta in volta, non sempre – diversi, ma la predisposizione all’odio su basi gratuite è perennemente in agguato, pronta a balzare fuori da dietro la lavagna, laddove era stata relegata dalla punizione collettiva.
Dopo anni contrassegnati per lo più da polemiche effimere, il militante Spike Lee torna sul suo campo prediletto, più agguerrito che mai, senza andare tanto per il sottile, ma con le idee chiare.
Colorado Spings, primi anni settanta. Poco dopo essere diventato poliziotto, l’afroamericano Ron Stallworth (John David Washington) viene promosso nel ruolo di detective, grazie al quale riesce a entrare telefonicamente in contatto con la sezione locale del Ku Klux Klan. Così facendo, stringe con loro un legame continuativo, fisicamente portato avanti dal suo collega Flip Zimmerman (Adam Driver), che ne acquisisce l’identità sul campo.
L’azione contempla un alto rischio di essere scoperti, ma c’è un piano da sgominare.
Nonostante tutto e tutti.
A volte ritornano. Negli ultimi anni, di Spike Lee si è principalmente parlato per le sue discutibili polemiche sulla scarsa rappresentanza black agli Oscar (#sowhite), nonostante nel frattempo non se ne sia stato in disparte (negli ultimi dieci anni, da noi sono arrivati in sala solo l’approssimativo Miracolo a Sant’Anna e l’inevitabilmente poco apprezzato remake alimentare Oldboy, mentre recentemente è stato editato in dvd e blu-ray Il sangue di Cristo).
Complici la vetrina di Cannes, dove si è aggiudicato il Gran premio speciale della giuria, produttori di peso quali sono Jason Blum e Jordan Peele (già, il regista di Scappa – Get out) e una distribuzione internazionale griffata Universal, con BlacKkKlansman acquisisce nuovamente visibilità, traendo linfa vitale dalle memorie di Ron Stallworth.
Così, si avvale di un materiale di partenza che ha dell’incredibile (un nero e un ebreo al cospetto del Ku Klux Klan), una di quelle pagine nascoste nei molteplici interstizi della Storia, fuori dai radar di comune consumo, ma perfetta per stabilire un vaso comunicante tra il passato e il presente.
Nella sua invettiva, Spike Lee è graffiante, ricorre ripetutamente all’ironia e al cinema di genere che fu per intavolare un discorso serio, manifestando un’indole scarsamente incline al rispetto dell’etichetta.
Un animo irrequieto che scaraventa su schermo soprusi mai passati di moda e le pene inflitte alle minoranze, con i bifolchi presenti ovunque e indicibili ideali di superiorità, estratti da ricette bislacche e antistoriche, pensate come ideali fondamenta per rimettere in sesto la società.
In più, l’autore si sbizzarrisce, abbeverandosi anche dalla fonte cinefila, tra l’apertura estratta da Via col vento, una bandiera americana condivisa – sotto mutate vesti - con Malcolm X, le icone anni settanta come Pam Grier (riesumata una ventina di anni fa da Quentin Tarantino in Jackie Brown) e il pertinente, quanto inevitabile, richiamo estratto da Nascita di una nazione.
Pertanto, il materiale abbonda, l’opera si carica di significati e il linguaggio mantiene una linea arrembante, per quanto disordinata, montata con più di una difficoltà, contraddistinta da un’animosità spigolosa, espressa anche dal cast. John David Washington, figlio d’arte (suo padre è nientedimeno che Denzel Washington), è volitivo e ruspante, Topher Grace mostra una stravaganza insolita, mentre su tutti emerge la versatilità di un Adam Driver sempre più bravo, a suo agio in ogni tipo di situazione.
Andando, sempre se possibile (in un caso del genere, è tutt’altro che scontato), oltre il singolo punto di vista, BlacKkKlansman è un film più complesso – e complicato – di quanto possa apparire, espressamente politico («cosa c’è di più importante della politica?», dice a un certo punto una ragazza), con almeno un pezzo da maestro, riscontrabile nel parallelo tra un discorso pronunciato dal gigantesco Harry Belafonte e il rito iniziatico del Ku Klux Klan, e un succo del discorso che non si estrae dalle virgole, per quanto qualche congiunzione in più sarebbe stata ben accetta. Inoltre, guarda indietro nel tempo per dialogare con il presente, con una beffa finale (della serie ok, è stato tutto molto bello ma adesso facciamo finta non sia successo niente) abbinata a un tocco beffardo (una telefonata ilare) e a immagini di repertorio quanto mai fresche (i disordini del 2017 e le dichiarazioni di Trump), che ci riportano – di peso - alla realtà.
Gagliardamente spavaldo, gloriosamente aizzato e scomposto oltre il lecito.
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