Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Alcuni giorni si è forti, ci si sente invincibili e si sta a cavallo con fierezza. Altri meno e ci si ritrova per terra, a mangiare la polvere, perseguitati dai demoni di un passato troppo scomodo, che neppure mille bottiglie di whisky possono far svanire. I fratelli Sisters (Leone d'Argento alla miglior regia per Jacques Audiard [già premio BAFTA per il miglior film straniero nel 2010 con Il profeta] al Festival di Venezia 2018) è un film in the saddle - in sella, per capirci - tanti sono i chilometri e il tempo che i due protagonisti trascorrono a cavallo, attraversando un bel tratto del Far West versione febbre dell’oro, per cercare di portare a termine la loro missione. Un lungo cammino che porta Eli (John C. Reilly, super attivo nel 2018 e protagonista di Stanlio & Ollio [Jon S. Baird] e di Holmes & Watson - 2 de menti al servizio della regina [Ethan Cohen, sì, proprio quello dei famosi fratelli Cohen]) e Charlie (Joaquin Phoenix, quest'anno magnifico Joker di Todd Phillips) dall’Oregon alle spiagge di San Francisco (California), a scoprire che il mondo sta cambiando, a provare il primo spazzolino da denti e ad usare per la prima volta lo sciacquone del water. E, ancora, a realizzare di non essere solo degli spietati pistoleri.
È un’America di “luoghi che sorgono nell'arco di pochi mesi, prima tende, poi case, poi botteghe con donne che discutono con impeto sul prezzo della farina”, come annota John Morris (Jake Gyllenhaal, visto da poco in Spider-Man: Far from Home, di Jon Watts), un altro dei personaggi della vicenda filmica, anche lui al soldo della Prepotenza ma sulla via della redenzione.
La litigiosa fratellanza dei temuti Sisters è il punto di forza di un sodalizio basato sulla velocità con la rivoltella. I fratelli sicari – parliamo di due tipetti che dormono con il dito appoggiato sul grilletto della colt - sono una sorta di ‘bravi’ al servizio di un Innominato che nella storia riscritta per il cinema dallo stesso Audiard (ispirato dal romanzo Arrivano i Sister di Patrick deWitt), è il dispotico Commodoro, per il cui personaggio è affidato un cameo al grande e recentemente scomparso (a 75 anni) Rutger Hauer.
La pellicola parte con vigore e per circa mezz'ora cattura l’attenzione e fa sperare in un filmone. Poi la spiacevole frenata, il flusso d’immagini che rallenta come se della sabbia fosse entrata nell’ingranaggio e la sensazione che la mano del regista abbia perso il controllo della vicenda, che la strada più scorrevole per arrivare a destinazione sia stata smarrita. La sceneggiatura cincischia sul rapporto fra il personaggio di Gyllenhaal e la vittima designata dei due pistoleri, impersonata dall’attore inglese di origini pakistane Rizwan Ahmed (che con Gyllenhaal aveva già duettato nel 2014 nell'ottimo Lo sciacallo - Nightcrawler, di Dan Gilroy). Considerato che il film dura due ore e un minuto, si sarebbe potuto risparmiare un pezzetto di girato ed evitare così il rischio di stancare lo spettatore amante del western più ‘sparato’.
A metterci un’abbondante pezza è la maestria di due attori del calibro di Reilly e Phoenix: il primo omone spietato ma dal cuore romantico, che a una imbarazzata prostituta di una taverna chiede di recitare la parte della donna che ha smarrito e, sulla via del ritorno, accudisce il fratello menomato; il secondo è un killer che patisce il continuo tornare di un’infanzia traumatica, alcolizzato, stizzoso quanto efficace ma anche imponderabile.
Considerati il lungo viaggio dei protagonisti, i paesaggi che cambiano in continuazione, la ricostruzione di una San Francisco di fine Ottocento e di uno dei primi hotel ‘stellati’ della storia, da applaudire sono fotografia (Debie) e scenografia (Barthélémy).
Film deludente rispetto alle attese ma comunque più che godibile. Voto 7,4.
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