Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Western brautigan-picaresco, pre-steampunk e fanta-storico, memore della lezione altmaniana, innervato da un doppio inconsapevolmente freudiano ante litteram stream of consciousness e sfociante in uno struggente finale ambientato in una ideale sequela di odisseiche stanze kubrickiane in cui i ritrovatisi personaggi superstiti si osservano vivere.
Baguette (ché “spaghetti” invece è meglio, eh) Western [Andalusia (Almería), Navarra e Aragona].
Jacques Audiard, l'uomo col cappello, classe 1952, sceneggiatore a partire da metà anni '70 (in un'occasione a metà anni '80 in collaborazione col padre Michel per il film di Claude Miller “Mortelle Randonnée”) e regista da metà anni '90 (“Regarde les Hommes Tomber”, “un Héros Très Discret”, “Sur Mes Lèvres”, “De Battre Mon Coeur s'est Arrêté”, “Un Prophète”, “de Rouille et d'Os”, “Dheepan”), gira con questo “the Sisters Brothers” il suo primo film (scritto con Thomas Bidegain traendolo dal romanzo omonimo del Patrick deWitt di “Abluzioni”) su commissione (suggeritogli una volta contattatolo/intercettatolo dal co-protagonista John C. Reilly, anche co-produttore), uscito “in contemporanea concomitanza” (alla 75ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia) col progetto coeniano di “the Ballad of Buster Scruggs”, del quale potrebbe, “tranquillamente” (accorciandolo di quattro quinti), esserne un episodio.
Joacquin Phoenix (appena uscito da un altro carattere di bounty hunter/killer, aka (ah, la modernità!) prezzolato sicario professionista, messo in scena per Lynne Ramsay) è l'altro co-prot. dell'opera, e con simpatetica destrezza si rimpalla col fratello nomenclarmente ginoide lo spazio attoriale. Jack Gyllenhaal (Zodiac, Enemy, Prisoners) e Riz Ahmed (The Night Of) sono la loro controparte (para/semi-"pinkertoniano" l'uno, e sansimonista l'altro) in fuga duellante complicità. Rebecca Root, Allison Tolman (Fargo - 1), Carol Kane e Rutger Hauer sfornano camei (alcuni davvero fugaci, ma comunque molto) incisivi.
Fotografia del belga Benoît Debie (Gaspar Noé, Fabrice Du Welz, Lucille Hadžihalilovic, Floria Sigismondi, Harmony Korine, Ryan Gosling, Wim Wenders, e video-clip fighetti per John Legend, Rihanna, Beyonce/Jay Z). Montaggio della sodale Juliette Welfling. Scenografie di Michel Barthélémy. Costumi di Milena Canonero. Musiche, al solito stilisticamente riconoscibile e personali, di Alexander Desplat.
- Sai cosa, fratello? Non penso siamo mai andati così lontano.
- Intendi tra di noi, nelle nostre conversazioni?
- Di cosa stai parlando? Intendevo in senso stretto. Io e te non siamo, mai, andati così lontani, letteralmente.
E poi, la MdP, montata s'un grosso dolly o s'un piccolo drone, si alza a scavallare una duna, ed ecco che: Thalatta! Thalatta! Non che il Pacifico (interpetato qui da un'altra costa ovest, atlantica, o da una sud, mediterranea) non si veda e non si tocchi, dall'Oregon. Ma la California è la California, già nel 1851.
E il passo successivo. San Francisco. La metropoli.
- Dannazione! Questo posto è Babilonia! A nessuno importerà nulla! Possiamo uccidere chi vogliamo, qui! Cazzo! La mente di ognuno è concentrata su qualcos'altro!
Western picaresco (à la Richard Brautigan), pre-steampunk (fanta-storico esoterismo alchemico), memore della lezione altmaniana ("McCabe & Mrs. Miller") - anche se il regista spesso cita/ricorda e interpella/ricorre (tanto nella diegesi, con la morale, l'atmosfera e lo stile, quanto direttamente extra-diegeticamente, nelle interviste) a "the Missouri Breaks" di Arthur Penn, Marlon Brando e Thomas McGuane -, innervato da un doppio inconsapevolmente freudiano ante litteram stream of consciousness e sfociante in uno struggente - ma niente affatto e per nulla ricattatorio, anzi - finale ford-laughtoniano ambientato in una ideale sequela di odisseiche stanze kubrickiane e mcguiresche in cui i ritrovatisi personaggi superstiti si aut'osservano vicendevolmente vivere.
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