Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Venezia 75 – Concorso ufficiale.
Imparare cose nuove è importante, quanto lo è non fermarsi alle apparenze e non annullare la propria personalità una volta entrati in contatto con un ambiente consolidato nel corso del tempo, tendenzialmente incline a modificare ogni eventuale new entry piuttosto di fare un conciliante passo nella sua direzione.
Così, in The Sisters brothers Eli scopre l’esistenza dello spazzolino da denti (risate garantite), i personaggi cambiano e le contingenze si trasformano repentinamente, mentre Jacques Audiard dirige per la prima volta una coproduzione internazionale (girata tra Spagna e Romania), calandosi nell’inedita parte senza svendere l’anima al diavolo. E nemmeno al western classico, che manipola fino a rivoltarlo come un calzino.
Oregon, 1851. Eli (John C. Reilly) e Charlie Sisters (Joaquin Phoenix), oltre che fratelli molto legati, sono assassini abituati a lavorare in coppia, ingaggiati dallo spietato Commodore per rintracciare, interrogare ed eliminare Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed). Nel frattempo, sulle tracce di quest’ultimo si è mosso John Morris (Jake Gyllenhaal), che ha l’incarico di tenerlo sotto controllo fino all’arrivo dei due sicari.
La rincorsa è lunga centinaia di miglia, durante le quali il piano originale dei fratelli Sisters subirà continue rettifiche, tra opportunità inattese e fasi di estremo pericolo, anche in funzione del rapporto tra Warm e Morris, anch’esso tutt’altro che immutabile.
Le ultime due opere precedentemente dirette da Jacques Audiard erano concettualmente antitetiche. Segnatamente, Un sapore di ruggine e ossa possedeva un impianto narrativo molto robusto e prestabilito puntigliosamente, mentre Dheepan - Una nuova vita si sviluppava per lo più sull’improvvisazione, senza troppi calcoli da rispettare. In un certo senso, The Sisters brothers è situato su una terza retta. Infatti la sceneggiatura, scritta dallo stesso autore insieme al suo storico collaboratore Thomas Bidegain e tratta dal romanzo Arrivano i Sisters di Patrick DeWitt, ha una costituzione blindata, ma è talmente prodiga di sorprese e possiede un distillato così mutevole tra una sorsata e la successiva, da non consentire di fare previsioni su quanto andrà ad accadere, dato che si rivelerebbero incredibilmente azzardate.
Un modus operandi impresso a chiare lettere fin dall’incipit, che individua subito un timing pimpante ma anche controllato, evitando di fare il verso ai luoghi comuni che il cinema western ha seminato a partire dalla sua origine.
Per di più, questa casella di genere sta parecchio stretta al film, che a tutti gli effetti è frutto di una vasta contaminazione, vantando una traccia crime, il sottofondo avventuroso, la commedia suddivisa tra sarcasmo e scorrettezze fino a lambire il demenziale, la concitazione delle sparatorie e anche il dramma, di stampo familiare così come più generico.
Su queste basi, è evidente come le due ore di durata debbano essere dense e infatti la trama si evolve in continuazione, tanto da aggiungere sempre un ulteriore tassello, modificando un ingranaggio a ogni pagina di scritto.
Una vivacità che, al di là di alcuni stilemi, come potrebbero essere l’avidità che fa perdere il lume della ragione, la violenza come linguaggio prediletto e il segno maschile (finale a parte, l’unica donna intravista ha una fisicità da uomo), permette a Jacques Audiard di stracciare regole date per assodate, di ribaltare le consuetudini, fino ad arrivare al culmine di quest’azione nel finale. Qui, pur lanciando un amo invitante, non cede alle lusinghe del classico finale con una redde rationem scoppiettante, calando dall’alto una soluzione inattesa, che ancora una volta ne rinnova le vesti.
Un ultimo colpo di genio che diventa l’ennesima ramificazione andata a buon fine, un ultimo sforzo che, al pari di interpretazioni sugli scudi - con quella scheggia impazzita e anarchica di Joaquin Phoenix e la duttilità di un sempre più intraprendente John C. Reilly (presente anche tra i produttori), mentre Jake Gyllenhaal è più sacrificato -, completa un’opera fortemente caratterizzata, che sposta la frontiera fino all’oceano, geograficamente ma anche metaforicamente.
Un Jacques Audiard insospettabile, per un titolo già in odore di divenire un cult.
Clamoroso.
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