Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
I fratelli Sisters, che pure contiene in sé l’amore per una donna che non vedremo mai, è soprattutto un meraviglioso racconto di fratellanza con il quale il regista prova a inseguire un sentimento di solidarietà alla ricerca di giorni migliori che (forse) non arriveranno mai.
Ho letto il libro di Patrick Dewitt poco prima che fosse pubblicato grazie ad Alison Dickey, la moglie di John C. Reilly, e mi ha subito entusiasmato. Forse se avessi trovato questo volume in una libreria di Parigi non mi sarebbe mai venuto in mente di trasformarlo in un film, ma siccome questa proposta mi veniva da amici americani mi sembrava giusto esplorare la possibilità di un racconto western. Il fatto che mi abbiano scelto mi ha in qualche modo legittimato ad affrontare questa storia anche se non sono mai stato un vero fan dei western: amo semmai quelli degli anni ’70 che raccontavano anche altro, ma devo precisare che le invenzioni legate alle suggestioni di quel cinema provengono direttamente dalle pagine di Dewitt, non da altro. (…) Rispondo così anche alla domanda che mi viene da più parti che mi chiede se sono stato influenzato da registi come John Ford o Sergio Leone. Rispetto molto entrambi, come rispetto anche Howard Hawks e tutti gli altri grandi nomi de cinema americano e non che si sono cimentati - spesso con risultati straordinari - con l’epopea del West. E’ un cinema con una mitologia legata anche al paesaggio che tuttavia, come europeo, non mi appartiene. Se si parla dunque del cinema di genere o dei grandi capolavori del passato posso comunque ammettere che qualche interconnessione in questo senso sicuramente c’è stata, e allora dico che Il film che più mi ha influenzato per questa storia è semmai La morte corre sul fiume, l’unica regia di Charles Laughton con Robert Mitchum, Shelley Winters e Lilian Gish, una “fiaba nera” del 1955 di cui qualcosa è passato anche nei nostri personaggi. Pensandoci bene però forse c’è anche un western come Missouri di Arthur Penn con Marlon Brando e Jack Nicholson, che tanto mi colpì quando ero ancora un ragazzo, che più indirettamente, ha travasato qualcosa in questa storia, perché in fondo anche lui risponde alla stessa domanda (presente peraltro in gran parte delle opere più importanti legate al mito della Frontiera) che potrebbe essere sintetizzata così: cosa resta nella società americana odierna della violenza dei padri fondatori? (Jacques Audiard).
Ho riportato in apertura un lungo stralcio dell’intervista rilasciata dal regista a Venezia (ne troverete anche altri nel corpo di questa mia recensione) dove Audiard si è aggiudicato meritatamente il premio per la regia poiché a mio avviso leggere le sue parole, comprenderne la portata e il senso, è la maniera migliore per poter valutare senza pregiudizi e preconcetti, l’importanza di questa sua ultima fatica (e prima incursione americana) con cui l’autore è riuscito a rivitalizzare la materia classica di un genere una volta molto frequentato, proprio smontando tutti gli stereotipi e le certezze del passato (ma su questo ci torneremo meglio dopo) a partire dalla costruzione dell’eroe, che qui è sempre duplice. Audiard ha realizzato insomma un western davvero inedito (e a mio modesto avviso pure molto affascinante) che attraversa la terra e il corpo della tradizione americana ma per superarla e renderla totalmente autonoma e personalissima. La smitizzazione di tutte le convenzioni codificate del genere è visibile soprattutto nella caratterizzazione dei suoi “eroi” appunto (o presunti tali) qui seguiti nel viaggio (anche interiore) che li porta fino al mare e all’amicizia poco virile dei fuggiaschi, ma per ricondurli subito dopo indietro, fino a farli riapprodare al loro letto di bambini nell’avita dimora dell’infanzia dove vive ancora la loro vecchia madre.
Partiamo allora brevemente dalla storia definendola davvero per sommi capi perché non amo molto dilungarmi nell’illustrazione dettagliata del racconto preferendo, al contrario, soffermarmi di più nella descrizione delle emozioni che la visione dell’opera mi ha procurato.
In estrema sintesi dunque, il film narra le vicende di un cercatore d’oro che, nell’Oregon del 1851, è lungamente inseguito dalle montagne dell’interno giù, lungo la costa della California fino a San Francisco, da due temibili cacciatori di taglie segnati da un trauma infantile che pesa ancora sulle loro spalle (i due fratelli del titolo, appunto) ma anche da un investigatore privato (decisamente più positivo ma non meno problematico degli altri due) che incrocerà presto il fuggiasco e proseguirà insieme a lui il viaggio verso l’Eldorado.
Troppo scarno ed essenziale? Può darsi ma i dettagli è meglio che li scopra lo spettatore. Per me è semmai più importante soffermarsi sui “caratteri interiori” dei quattro protagonisti che qui sono fondamentali per come è strutturata l’opera, anche se, paradossalmente, il regista ha tenuto a precisare che non condivide il pensiero di chi afferma che la psicologia trova sempre un grande spazio nei suoi film poiché lui ritiene invece che il suo cinema (e questo film in particolare) non si possa definire come “psicologico” e che semmai se di psicologia si vuol parlare, questa è consequenziale al movimento e all’azione. Indotta insomma, non preterintenzionale.Lo prendo sicuramente in parola ma ciò non toglie che la caratterizzazione anche emotiva delle figure della storia qui sia molto marcata grazie anche alla coinvolgente prova degli attori e rappresenti addirittura uno dei punti di forza della pellicola.
Insomma, nonostante le precisazioni di Audiard, per come la vedo io, mi sento di poter sottolineare perentoriamente che il grande, formidabile Reilly (il vero ispiratore di questa titanica impresa cinematografica) si è ritagliato su misura il ruolo di un assassino dal cuore talmente tenero da riuscire persino a entusiasmarsi per uno dei primi spazzolini da denti già in circolazione nel “selvaggio west” (ma ormai non più di tanto) di metà ottocento (per non parlare poi dell’altra diavoleria moderna come lo sciacquone). Un uomo a suo modo “sensibile” (e anche un poco romantico se vogliamo) che viaggia su e giù per la Frontiera portandosi addirittura dietro la sciarpa che gli fu donata dalla promessa sposa(e c’è una lunga, bellissima sequenza che chiarisce molto bene questo lato della sua personalità). Il fratello Charlie che lo accompagna (interpretato da un Phoenix che con questa sua maiuscola prova aggiunge un’altra perla alla sua già strabiliante carriera di attore) è invece un ubriaco inquieto in continuo movimento aggressivo e sfasato sempre pronto a menar le mani e la pistola.
Entrambi, alle prese con i loro intriganti ruoli pieni di sfaccettature, sono davvero eccellenti (e lo ripeto volentieri). Forse Reilly che veste i panni ingarbugliati del fratello maggiore che aspirerebbe a una vita più tranquilla e stabile di quella sprecata a inseguire canaglie, buca di più lo schermo grazie anche alla sua bella faccia gommosa molto in sintonia col personaggio, ma poi alla fine i due costituiscono un perfetto mix di allegria e minaccia anche un poco anarcoide che dà sostanza all’opera. Insieme, sono infatti i contendenti di una partita che si sviluppa per contrasti: se il primo porta su di sé ferite e cicatrici che vengono dal passato e cerca disperatamente il cammino per una (im)possibile redenzione comune, il secondo preferisce far parlare i pugni e le pistole. Li unisce e rende inseparabili, un segreto che rappresenta una specie di cordone ombelicale impossibile da recidere e che li porta alla fine, dopo tante schermaglie, a galoppare di nuovo all’unisono verso un (salvifico?) ritorno alle origini, alla mamma e al sapone.
Ma in una pellicola speculare come questa non si può trascurare nemmeno l’analisi (psicologica?) dell’altra altrettanto importante coppia che ha una funzione non solo di bilanciamento e che qui è formata dall’investigatore Morris (un altrettanto efficace Gyllenhall che disegna da par suo un personaggio più colto che annota tutte le fasi del suo viaggio su un taccuino e si comporta come se la sua figura fosse una specie di dizionario ambulante che articola molto bene le parole e tutti i pensieri che poi trasforma in scrittura) e da Kermit, il chimico cercatore d’oro inseguito che trova in Riz Ahmed il suo interprete ideale. Il volto molto particolare dell’attore, rende la sua figura una presenza teneramente disarmante che accompagna (e anche illumina) la storia e il film.
Al riguardo, sull’importanza e la validità dell’interpretazione, lo stesso Audiard ha chiosato così: non posso che ammettere che se per me il bilancio di questa prima esperienza americana è stato molto positivo, lo devo in gran parte ai miei ispirati interpreti (…). Ho sempre avuto una fascinazione per gli attori americani e qui ho potuto contare su un quartetto davvero straordinario: John C. Reilly, (anche produttore insieme alla moglie) Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhaal e Riz Ahmed. Posso dunque dire adesso, ad operazione compiuta, di aver vissuto qualcosa di magnifico, di cui sono molto soddisfatto. Vederli insieme tutti e quattro è stato come vivere un sogno.
Non credo sia necessario aggiungere altro (forse mi sono pure sbilanciato troppo) perchè non voglio togliere allo spettatore il gusto della scoperta in corso di visione.
Non posso però esimermi dal sottolineare che poi, in corso d’opera, le cose cambieranno inaspettatamente, prenderanno forme anche diverse, fino a far emergere persino un evidente, dolcissimo sottotesto gay dentro a un contesto generale in cui oltre a mettere in scena una situazione quasi simbiotica fra i due fratelli, fanno la loro comparsa anche le idee politiche (e, se vogliamo, anche i tabù) dell’epoca.
C’è insomma (come ho già accennato prima) una specie di doppio passo a due (e a un certo punto addirittura a quattro) che si concretizza dentro a un intrigante gioco di rispecchiamenti e nascondimenti che coinvolge tutte e due le coppie (i “cattivi” da una parte e i “buoni” dall’altra) forse un tantino pretestuoso ma non irrilevante né fine a se stesso proprio perché attiene alla scoperta del proprio lato femminile come se i “fratelli” (e in questo la titolazione è illuminante) fossero anche “sorelle” appunto, e la virilità maschile molto più sfumata(lo sostiene con forza Cristina Paternò nella sua recensione pubblicata su Vivilcinema).
Una storia realistica insomma che ha però a tratti a un andamento che sembra quasi voler sfiorare la “parodia” (passatemi il termine) di un genere che, come abbiamo appreso anche dalle sue parole, il regista conferma di non amare particolarmente, ma dal quale acquisisce un altro tema cardine che è quello della violenza (in questo caso la violenza dei padri – quelli veri e quelli “surrogati” - che ricade sui figli e poi li condiziona). Una tematica davvero molto forte, che qui - singolarmente – è invece trattata con toni leggeri (in alcune parti quasi da vaudeville come qualcuno ha scritto in rete) che è un altro elemento dissacrante che dà lustro alla pellicola.
Non lasciamoci ingannare però dall’apparenza della superficie perché poi Audiard non lesina certo sparatorie e massacri sparsi un po’ per tutto il film, il che dimostra quanto sia stato bravo a maneggiare quello che rimane comunque un western sia pure anomalo, e a piegarlo al suo volere rendendolo al tempo stesso diverso ma riconoscibilissimo (per stile e intensità) non solo al genere di riferimento ma anche al suo modo di fare cinema, e non era facile con una pellicola così particolare e molto lontana dal suo precedente percorso artistico.
Si può dire insomma che il regista si è cimentato nel western da autentico outsider, affrontandolo e leggendolo da un’angolazione talmente insolita che potrebbe persino depistare lo spettatore perche l’ambiguità e i cambiamenti di pelle e di registro, rendono volutamente instabile e cangiante il percorso narrativo che potrebbe persino infastidire gli amanti della tradizione.
Niente di casuale però ma, al contrario, qualcosa di molto meditato. Non a caso il regista ha cercato di spiegare tutto questo precisando che i soggetti che lui ama molto e che spesso, anche indirettamente si trovano nelle sue pellicole, I fratelli Sissters compresi, sono quelli che parlano di un’altra vita che tutti noi potremmo (o vorremmo) avere: come sarebbe la nostra vita se avessimo fatto delle scelte differenti? E’ molo interessante riflettere su quante vite abbiamo e quanto ci costi confrontarsi a più livelli con queste possibili esistenze parallele.
Del reso, se si ha la pazienza di seguire la peregrinazione per l’Oregon dei quattro protagonisti, tutto questo appare più che evidente poiché la tematica è spesso enunciata nei vari contorcimenti anche lessicali. E’ dunque proprio grazie a questi frequenti ribaltamenti non solo di prospettive, ma anche di tono, che Audiard riesce a portare a compimento la sua interessante rilettura – smitizzante - del mito fondativo degli Stati Uniti di un’America alla ricerca di quella felicità (utopica) che viene decantata dalla loro Costituzione come legittimo orizzonte del cittadino ma che è solo un’illusione. Qui infatti la prepotenza cieca e arbitraria dei fratelli Sisters e del sistema in cui sono costretti a vivere, è utilizzata proprio per dimostrare (e confermare) che l’America non ha prosperato sulla fortuna di uomini perbene ma sull’avidità di individui famelici come bestie feroci e che la società che non mira al profitto immaginata da Kermit è un sogno davvero impossibile da realizzare.
Audiardperò non è del tutto pessimista perché con questo film ci parla anche di un ritorno all’infanzia e alle origini ma senza l’elemento perturbante rappresentato dal padre.[1] Ci mostra insomma la possibilità di un nuovo inizio che può far davvero ricominciare daccapo l’esistenza e viverla così in maniera più consona ai propri bisogni (vedi il legame che riconduce, in modo circolare, i due fratelli alla casa e a quella madre burbera e bonaria al tempo stesso: una bellissima. struggente sequenza empatica splendidamente realizzata e - questa sì – potentemente neo-fordiana).
L’altra carta vincente è la sceneggiatura scritta dal regista insieme Thomas Bidegain[2] che sembra qui voler mettere lo spettatore addirittura un passo più avanti dei suoi protagonisti ed è proprio a lei che si devono alcune variazioni sostanziali che si riflettono anche nello sguardo rispetto alla tradizioni del genere e che sono piùà evidenti delle parole.
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Concludendo, ritengo dunque che ci voleva un regista dall’approccio puro e anticitazionistico, un autore moderno e non convenzionale come Audiard, per recuperare il western come narrazione e fabula prima di darlo per scontato quale mito, anche se poi alla fine a me sembra che la Frontiera interessi al regista molto di più di quanto si può dedurre dalle sue affermazioni, anche se solo come orizzonte degli eventi da guardare da lontano (e probabilmente anche da immaginare) per poi descrivere il tutto come se fosse una frontiera archetipica (…) ancora senza definizione e volto (l’ha definita così a Venezia Pier Maria Bocchi).
E’ comunque vero e accertato che a lui non interessano i tramonti patinati né il revisionismo di un genere ormai da troppo tempo caduto un po’ in disuso (e non è un caso che il film è stato interamente girato in Europa, fra Spagna e Romania, paesi dai quali sono stati attinti i suoi bellissimi scenari). Audiard insommarinuncia volutamente a tutti gli stereotipi per poter così raccontare questa storiai come se il western non fosse mai morto o, per meglio dire ancora, come se fosse il genere più attuale e moderno, quasi come se dovessimo ancora attenderci da lui parole decisive sul mondo e sull’uomo (e anche questo è il segno inequivocabile di una cifra stilistica in apparenza invisibile, ma forte, decisa, personale e affascinante).
Basta guardare come Audiard e il suo sodale sceneggiatore parlano del tema della vendetta (esorcizzandolo già nelle sue molteplici esternazioni), o soffermarsi a considerare come poi – coraggiosamente- la vicenda scivola verso la tragedia, e dopo che questa si è consumata, come ritorna alla tranquillità e alla pace in un finale formidabile – è ancora Bocchi che lo dice – che sembra omaggiare qualche cosa e che al contrario non omaggia niente, è soltanto una scena di requie, le immagini di un ritorno (…) che avviene repentinamente (…) che quasi non te ne accorgi, e vorresti avere più tempo ma purtroppo non ce n’è proprio più.
Della grandezza degli attori ho già detto. Segnalo solo la presenza di Rutger Hauer nel ruolo di un cattivo (il Commodoro che è anche il deus ex machina di tutta l’intricata storia), che fa una doppia, fugace apparizione.
Ottima infine la chiaroscurata fotografia essenziale priva di vezzi e di ghirigori di Benoit Debie e l’appropriata colonna sonora realizzata da un nome che è una garanzia come quello di Alexandre Desplat.
[1] I Sisters non sono i soli ad aver rescisso dalla propria vita la figura paterna perchè anche Morris e Kermit confessano nel film di avere da tempo rotto ogni rapporto con la famiglia d’origine
[2] Quando scrivo – dice Audiard - mi lascio guidare dalle idee e dalle emozioni, a prescindere dai generi precostituiti, e non mi preoccupo di lasciare un segno. In ogni epoca i cineasti hanno avuto preoccupazioni differenti e le sceneggiature, ossatura prioritaria di ogni pellicola, sono gli elementi che mettono meglio in evidenza tutto questo: quanto più lontane sono dalle nostre, da quelle di oggi, tanto più queste pellicole ci sembrano datate. Ogni epoca ha il suo cinema, che può invecchiare più o meno precocemente e la sceneggiatura fa evidentemente la sua parte al riguardo più delle immagini.
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