Regia di Katharina Mückstein vedi scheda film
Film che ama raccontare, ma che non riesce a spiegarsi. Film che, per farsi capire, ha bisogno di citare una canzone.
Titolo italiano. Film austriaco. Un riferimento ad un brano di Franco Battiato, giusto per indicare che siamo tutti randagi. Non esistono legami che tengano: resistono, ma solo come guinzagli elastici, allungabili fino a consentire fughe segrete verso posti invisibili al nostro padrone. L’eccezione alla regola è un sistema di meandri che questo film innesta sull’impianto anonimo di una consueta faccenda di mariti-mogli-figli-amici-fidanzati-compagni di scuola. L’ossatura della fiction in formato famiglia si lascia infiltrare dalle ramificazioni della trasgressione, che, in questo caso, è più una contraddizione logica che un’incursione nel proibito. Ognuno insegue, clandestinamente, il proprio contrario, la negazione del proprio ruolo, l’opposto di ciò che gli altri si aspettano da lui. È una maniera di testimoniare quella infelicità di fondo che deriva dall’eterna persistenza del desiderio come modalità di base del funzionamento dell’io, che si autoalimenta della continua insoddisfazione, del cercare l’impossibile, inteso come la radicale negazione di quel che si possiede. Agile è il modo in cui questa storia un po’ così, avvolta nella beata normalità della media borghesia di provincia, riesce, alla prima occasione, ad abbandonare il corso principale per andare a infilarsi nei cunicoli sotterranei dell’innaturale, di ciò che non si spiega se non in termini di contrappunto alla melodia dominante. La dissonanza è procurata dal gusto dell’essere altro come presunta via d’accesso all’essere se stesso: una lotta estrema e perversa all’apparenza, considerata un nemico onnipresente, incarnata da ogni cosa ed ogni persona che non si vergogni di mostrare al mondo il proprio volto (la propria maschera?). Quel che si vede deve per forza essere falso. L’evidenza si trova agli antipodi della verità. In questa lotta senza quartiere l’individualismo si presenta sotto forma di un’ossessione paranoide, che confonde un artificioso impulso alla devianza con l’istintiva inquietudine della passione. Per affermarsi occorre ribellarsi, sia pure nell’ombra, sia pure dietro il paravento di pietose bugie. La scelta di scappare forse non è del tutto consapevole, ma certamente non è casuale. Ed è talmente diffusa (ne sono colpiti uomini, donne, adolescenti) che viene il dubbio che si tratti un retropensiero contagioso, indotto dalla noiosa prevedibilità di certi progetti di vita (essere figlia di una veterinaria e fare pratica con gli animali, essere un ingegnere edile e costruire la casa di famiglia, essere amica di un ragazzo e fidanzarsi con lui). L’ovvietà stanca, finanche ripugna, magari fa pure paura. Il messaggio probabilmente è questo. La scontentezza è sinonimo di libertà. L’incessante divenire è l’unico antidoto alla morte. Per sopravvivere, bisogna trasformarsi, impedendo agli schemi di consolidarsi, intorno a noi, ingabbiandoci nelle loro ferree strutture. La consegna va rispettata, ad ogni costo. Anche se è un’impresa pericolosa e dall’esito incerto.
Il discorso, in questo racconto, si fa largo a fatica, attraverso gli eventi, senza il necessario supporto delle premesse teoriche. Solo alla fine il senso decide di uscire allo scoperto: l’anomalia dismette allora quella veste mimetica che l’aveva mantenuta amalgamata al resto, per mostrarsi come la chiave di lettura psicologica e morale di una vicenda in cui, sino a quel momento, avevano prevalso toni narrativi assai convenzionali. La stravaganza, rimasta a lungo soffocata nel testo, abbandona la sua indecifrabilità, ma in virtù di un significato appiccicato in extremis, con una didascalia musicale che dice più del dovuto: parlano, le parole della canzone, rivelando, all’improvviso, anche quello che la storia, di per sé, non ha saputo esprimere.
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