Regia di Ari Aster vedi scheda film
L'inarrestabile messa in abisso dell'inutile (ma dilettevole) in cui qualcuno perde la testa: il regista.
Trilogia Horror (esordienti e semi-esord.) / 2 : “Hereditary”, “A Quiet Place”, “Hagazussa”.
[Qui la prima: “It Follows”, “Babadook”, “the Vvitch”.]
Con qualche rallentamento e molta suspense, il primo respiro di compensazione lo si tira dopo 40 minuti e due funerali. E da lì in poi la domanda è: dove si vuole andare a parare? Per com'è costruita l'azione…fino a quei dati punto e momento, e con quei dati a disposizione, tutto è tanto plausibile quanto accadibile, persino la razionalità. Poi, intorno all'ora, un uno-due: che spreco, se almeno… No, niente, nulla, così è.
E dunque: “the Exorcist”? “Rosemary's Baby”? “the Shining”? E ancora, dopo W.Friedkin, R.Polanski e S.Kubrick: Sam Raimi, un certo côté argentiano, M. Night Shyamalan (l'elemento "nascosto" sullo sfondo dell'inq.ra che poco a poco, sotto traccia, piano piano, si palesa costituente e attore principale dell'azione), e...sulla fiducia per il futuro...Robert Eggers? Certo che no: “Hereditary” è solo la miniatura di tal Cinema.
È l'interpunzione di un grimaldello/passepartout e la traslitterazione onomatopeica del suono Q della lingua Xhosa, "Glock", in seno a un discorso un po' più ampio: il genere horror.
Con i casualmente summenzionati esordi e opere seconde di David Robert Mitchell, Jennifer Kent e Robert Eggers, il primo lungometraggio dopo una serie di corti del regista e sceneggiatore Ari Aster ha a che spartire qualcosa: dalle stupidamente utilizzate in modo pretenziosamente e sfocatamente “disturbante” nudità (sostanza e contenuto veicolato attraverso la forma e lo stile) come nell'ingenuo e pretenzioso “It Follows”, all'insensatezza, declinata attraverso due prevalenti dispositivi differenti, dello spirito/sostanza/contenuto/significato, in “Babadook” (l'inaccettabilmente compromissoria e arrendevole morale finale), e della tecnica/forma/stile/significante, in “Hereditary” [l'inarrestabile messa in abisso dell'inutile (ma dilettevole), dalla quale invece Robert Eggers con “the Vvitch” si salva in pieno grazie alla riduzione all'osso dell'evidenza ostentata].
Ciò che invece salva il film dalla messa in abisso - fisica - è il suo essere - consapevolmente o meno, “non” importa - totalmente cazzoide/cazzone.
Toni Collette (anche prod. esec.), che forse ha mai avuto quell'exploit che davvero si sarebbe meritata [ovviamente, dato il tema: “the Sixth Sense”, e poi: “Velvet GoldMine”, “8½ Women”, “About a Boy”, “In Her Shoes” (la sua prova migliore), “Little Miss Sunshine”, “TowelHead”] e che da almeno più di un lustro (dopo la grande prova di “Unites States of Tara”) non ha avuto parti di rilievo, qui è di una bravura mostruosa (che riproporrà in "WanderLust"), tanto sottile quanto sbracata.
Gabriel Byrne (anche prod. esec.), la sempre brava Ann Dowd [carriera trentennale ("Olive Kitteridge"), e oramai iconica Aunt Lydia], l'esordiente Milly Shapiro e in parte il giovane Alex Wolff le tengono testa. Poi, qualcuno la perde (spoiler: il regista).
Fotografia di Pawel Pogorzelski, montaggio di Jennifer Lame (noahbaumbachiana d.o.c.g.) e Lucian Johnston, musiche del grande Colin Stetson che qui si diverte tanto a pigiare sul pedale dell'acceleratore quanto ad utilizzare sullo spartito l'evidenziatore giallo fluorescente.
Marchio A24 Films, una garanzia (ad oggi, ancora enormemente più nel bene che nel male: American Honey, the Ballad of Lefty Brown, the Bling Ring, the Disaster Artist, Enemy, Ex Machina, First Reformed, the Florida Project, A Ghost Story, Good Time, High Life, How to Talk to Girls at Parties, InTo the Forest, It Comes at Night, the Killing of a Sacred Deer, Krisha, Lady Bird, Lean On Pete, Life After Beth, the Lobster, Room, the Rover, the Sea of Trees, Spring Breakers, Swiss Army Man, Tusk, Under the Skin, Under the Silver Lake, the Vvitch, WoodShock).
Gli effetti digitali messi a ricreare uno sciame di mosche tipo vecchia pellicola puntinatamente rovinata sono...giustamente (?)...irritanti.
* * ¾ (***)
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