Regia di Christian Rivers vedi scheda film
Il pianeta è collassato anni addietro nel breve tempo di soli sessanta minuti. I pochi superstiti si sono organizzati formando città "mobili" e meccaniche, tutte propense ad espandersi o a non venir soggiogate ed inghiottite da quelle più grandi. Tra queste ultime, Londra è una delle più enormi e strutturate, e la incontriamo nell'atto di far sua una cittadina più piccola (dall'originalissimo nome di Pandora), seguendo un concitato inseguimento tra mostri meccanici, entro i cui ingranaggi vive o sopravvive come può un popolo ridotto alla barbarie più degenerata e primordiale.
Si accenna a concetti "alti" e complessi come il "darwinismo urbano", inteso come nuova politica urbanistica di questa affamata Londra post atomica mobile e cingolata, che racchiude tra i suoi immensi tentacolari motori, un conglomerato urbano e meccanico che costituisce l'unica vera idea interessante del colossal australiano che qui ci occupa.
Al centro di una lotta per il predominio delle risorse ancora disponibili, si innesta una vicenda privata che prende di mira uno dei comandanti della Londra mobile, e una terrorista giovane e sfregiata che si rivelerà come la figlia di primo letto, intesa a vendicarsi dell'uccisione della madre, depositaria di un amuleto che nasconde dentro di sé un clash drive, ovvero la chiave in grado di decifrare i codici che governano una tecnologia fino a quel momento ritenuta perdita a seguito della distruzione nucleare.
Per il resto il film, dalla indubbia spettacolarità di fondo, si poggia su una fantascienza vintage e old style che ricorda certe avventure alla Jules Verne, contaminate senza farsi troppi problemi, con citazioni-plagio di Mad Max, ma pure della saga terminator (i "rinati" dal volto di teschio con l'occhio luminoso e la forza incredibile), senza contare che, tra le tante location citate, spuntano pure le "montagne di Tannhauser", che non può non rimandarci al celebre discorso di commiato di Blade Runner.
Ma il problema maggiore del filmone "trita-tutto"(in più accezioni), è l'inconsistente spessore dei suoi protagonisti, uguali ed elementari al pari di mille altri personaggi di saghe giovanilistiche di successo, ma vuote ed insipide senza via di scampo. Troviamo il solito cattivo, qui impersonato dal pur altrimenti valido attore australiano Hugo Weaving, padre di due figlie, una bionda come la Barbie, l'altra bruna e sfregiata figlia di primo letto; entrambe daranno vita a due coppie grazie all'intervento di altrettanti eroi-bambocci privi di qualsiasi parvenza caratteriale in grado di dar loro una personalità compiuta che si discosti dai più abusati cliché commerciali.
La fastosa produzione neozelandese affida la regia al debuttante conterraneo Christian Rivers, già aiuto regista del connazionale Peter Jackson nella trilogia de Lo Hobbit, e in passato già collaboratore dello stesso famoso cinesta. Un Rivers che, di par suo, non si comporta proprio male, organizzando uno spettacolone sontuoso e scontato che deficita e presenta carenze gravi più che altro in sede di scrittura.
Ne scaturisce un colossal fragoroso, ma vuoto, nello stile del più grossolano e superficiale Emmerich di Stargate.
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