Regia di Robert Rodriguez vedi scheda film
La più classica delle sceneggiature tarantiniane, con un cambio di registro narrativo da annali, fa da sfondo ad un film godibile per quanto poco credibile. Bella prova corale di un cast di livello (Clooney, Keitel, Juliette Lewis, Hayek) ed un finale, che nel tentativo di essere beffardo, si rivela qualunquista ed immaturo al contempo.
Per quanto non sia diretto da Quentin Tarantino, “Dal tramonto all’alba” è spesso considerato un film tarantiniano. La ragione sta nell’ingombrante importanza ricoperta dalla sceneggiatura che, più ancora della regia (per quanto peculiare, di Robert Rodriguez), lascia il segno durante la visione. La scrittura qui, oltre a prodursi nel più clamoroso cambio di registro narrativo della storia del cinema, rappresenta anche un fulgido esempio di creatività ed originalità.
La storia riferisce di due rapinatori, i fratelli Seth (George Clooney), metodico e freddissimo, e Richard (Quentin Tarantino), psicopatico e inaffidabile, che di ritorno da una sanguinosa rapina, con la necessità di uscire dal Texas, rapiscono Jacob (Harvey Keitel) e la sua famiglia, costringendoli a tradurli in Messico. Appena superato il confine, l’improvvisata banda di emigranti si ferma al “Titty Twister”, ambiguo locale dove, in attesa dei rinforzi, trascorreranno una notte decisamente indimenticabile.
Uno strip club che si tramuta in una location a metà tra la casa dei fantasmi di un luna park e un videogame splatter, in cui arrapati avventori diventano all’istante spietati ammazza-vampiri è la boutade narrativa principale. Attorno ad essa orbitano un bel po’ di cliché tarantiniani (dal feticismo per i piedi, alla rapina perpetrata fuori dalla linea narrativa che però è elemento fondante della storia, dai toni grandguignoleschi ai fluenti dialoghi pieni di turpiloqui). Troppo (quanto a carne messa al fuoco) o troppo poco (in termini di credibilità e verosimiglianza), fatto sta che è proprio la sceneggiatura, al netto di tutto i resto, il marchio di fabbrica di questo action movie che si tramuta nel più tipico dei prodotti gore, in cui il genio di Tarantino ha l’ardire di tramutare “Quel pomeriggio di un giorno da cani” in uno dei capitoli di “Resident Evil”.
A margine, ma nemmeno troppo, la sensualità imbarazzante di Salma Hayek, una prova corale piuttosto ben riuscita (al punto che perfino lo stesso Tarantino sembra un attore degno di tal nome), un’ultima inquadratura beffarda e al contempo ingenua che puzza di qualunquismo, perché la stridente associazione tra il tempio Azteco e i mostri-vampiri che lo frequentano è semanticamente negletta. Sarebbe stato meglio lasciare il tutto avvolto nel mistero, come elemento di scaturigine del nonsense concettuale delle vicende, piuttosto che provare a spiegare qualcosa che, continuando nell’esercizio di esegesi, provoca a catena numerosi altri interrogativi (per esempio “perché proprio i camionisti sono le vittime?”) a cui non viene dato colpevolmente risposta e che lasciano un po’ di amaro in bocca.
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