Regia di Fede Alvarez vedi scheda film
Sotto i fendenti ferini di un racconto sfiatato, sfilacciato, complicato e farraginoso, svanisce come caligine sotto pioggia scrosciante l'identità di Lisbeth Salander.
L'incipit – un comodo ma sempre suggestivo ricorso all'infanzia, a quando tutto ebbe inizio – promette (meno il goffo tentativo di emulare i magnifici titoli di testa del titolo diretto da David Fincher …); col passare dei minuti, di sequenze che si accumulano per inerzia come fiocchi di neve destinati a coprire tracce e presenze, di svolte e soluzioni che sfibrano lentamente ma inesorabilmente tanto il corpo del racconto quanto il corpo della ragazza con il tatuaggio del drago, si assiste inermi alla trasformazione.
Altro che drago.
Lisbeth perde senso e sensi: la sua avventura somiglia più, semmai, a una missione di Jason Bourne. O Ethan Hunt. O Jack Bauer. Scritta male, molto male. Se il lavoro a domicilio presso l'ennesimo uomo prepotente e violento, con liberazione della moglie seviziata, è un necessario raccordo con la natura e la storia del personaggio, il resto della storia scivola verso una fumosissima deriva spy thriller. Derivativa e scioccherella. Un pretesto – il peggiore possibile – per il prosieguo dell'icona-Lisbeth.
Gli occhioni espressivi della pur brava – ma palesemente fuori parte – Claire Foy anelano la drammaticità che non c'è; restano piuttosto sopraffatti dal bagliore accecante di dialoghi e rivoli narrativi sgraziati, spesso esiziali, che ne disinnescano visione e credibilità.
Forse la fonte della sciagura risiede già nel testo di partenza (il romanzo di David Lagercrantz alle prese con la scomoda eredità di Stieg Larsson), certo la sceneggiatura è una ragnatela malconcia piena di buchi, ben visibile a distanze siderali e con il costruttore-padrone di casa fuggito per la frustrazione. Davvero, non si contano le lacune o le (risibili) scorciatoie. Autore, oltre allo stesso regista Fede Alvarez e Jay Basu, l'altrove eccellente Steven Knight: ma i credit recitano “e”, per ultimo. Chissà, probabilmente sarà stato chiamato per rattoppare voragini un po' qua un po' là e dare un minimo di costrutto …
Il ragno del titolo originale (quello italiano è la prima parte di un noto proverbio: stiamo messi sempre bene, eh), così come gli scacchi sistemati a più riprese, fanno/farebbero da cornice “simbolica” e “metaforica”.
Ma tanto il quadro è sfocatissimo.
Dentro, a far da contorno alla dama protagonista, figurine in posa imbarazzate e imbarazzanti: dall'anonimo belloccio Sverrir Gudnason (pare più giovane della Foy …) nelle nuove vesti del giornalista Mikael Blomkvist, alla sprecatissima Vicky Krieps di Phantom Thread, fino a Sylvia Hoeks apparsa troppo tardi.
Una mèsse di partecipanti a una festa mesta con la faccia funesta; mentre la fotografia dai toni grigiastri-plumbei-fuligginosi vorrebbe evocare suggestive atmosfere nordiche senza riuscirci (né a evadere dalla spenta genericità).
Il regista fa quello che può. E cioè poco (d'altronde il confronto con Fincher è impari, come prendere una schiacciata di Paola Egonu in piena faccia); almeno cerca di tenere il ritmo sotto controllo.
Inseguimenti (carino quello tra Lisbeth in moto – una maestosa Ducati nero petrolio – e le auto della polizia), scazzottate, fughe, ammazzamenti, twist (and shout), gente che occupa spazio, altri che fanno il grugno, pallottole che squarciano mura, omini che eseguono a loro insaputa piani ben riusciti.
Peccato per il confronto con l'antagonista di turno: si ritorna all'inizio, al padre molesto e malavitoso, a un retaggio sporco e nero e vischioso come catrame. A un nuovo tuffo nell'ignoto.
Moralina appiccicata e fuoco catartico chiudono i conti di un film irrilevante, a brevissima scadenza. Sequel, reboot, boh. Come sempre, le sorti al botteghino ne decreteranno le fortune e gli eventuali seguiti.
Infine, ancora su Claire Foy. Perde nettamente il confronto sia con l'originale Noomi Rapace che con la più vicina e affine (se non altro per dimensione produttiva e divistica) Rooney Mara. Fuori parte, s'è detto; e inadatta: la sua Lisbeth è orfana dell'aura incazzosa e cazzuta e sfigato/riottosa, come pure dell'indole borderline (a logica, avrà firmato un contratto che vietava ogni nudità …) e delle ali di drago pronte a dispiegarsi solenni per trascenderla in predestinato angelo vendicativo. Un tatuaggio di quelli che si cancellano dopo pochi lavaggi. Come la sua interpretazione, purtroppo.
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