Regia di Gary Nelson vedi scheda film
A metà strada tra Ventimila leghe sotto i mari e Star wars
Liquidato frettolosamente dalla critica come poco originale risposta disneyana a Star wars, in realtà il suo prototipo è rappresentato piuttosto dal disneyano 20.000 leghe sotto i mari (1954), di cui The black hole rappresenta una evidente remake con trasposizione futuristica dagli abissi marini a quelli siderali. L'avveniristico sottomarino Nautilus è qui rimpiazzato dalla gigantesca astronave Cygnus, al comando della quale l’equipaggio della Palomino trova un novello capitano Nemo nei panni del dottor Hans Reinhardt, il canonico scienziato pazzoide in bilico precario tra ulissiaco amore di canoscenza e folle hybris di chi si accinge a superare i limiti che Dio ha imposto all’uomo. In questo caso l'ultima frontiera, la porta verso l'ignoto, il punto di non ritorno è rappresentato da un enigmatico buco nero dall'incommensurabile forza gravitazionale, gravido di segreti metafisici (al limite del kitsch) che si sveleranno allo spettatore solo nel finale.
Cast anche troppo stellare, segno che la Disney, nel suo tentativo (fallito) di surclassare Lucas, non ha certo badato a spese. Convincente Maximilian Shell nel ruolo dello scienziato pazzo e solitario (ma il suo equipaggio che fine ha fatto?), trascinato nel baratro dalla sua sfrenata e amorale ambizione conoscitiva; anche Antony Perkins, nel suo ennesimo tentativo di svincolarsi dal cliché del pazzoide, questa volta scienziato buono ma debole, sedotto dal male e destinato a finale espiazione. Una parte secondaria da caratterista anche per il veterano Vincent Borgnine, del quale ho appena scoperto le origini carpigiane (per parte di madre).
Peraltro questo stretto collegamento con non esclude di certo evidenti allusioni all’universo narrativo ed estetico "rivale" di Star wars: solo per fare qualche esempio, la coppia di robot “simpatici”, aiutanti meccanici dei buoni contro l'esercito di robot, algidi e disumani, capeggiati dal supercattivo e luciferino robot Maximilian (parente alla lontana del più carismatico Darth Vader), materializzazione a sua volta della cattiva coscienza del dottor Reinhardt che lo ha creato, sul quale però mantiene un controllo malefico e perverso. Aggiungiamo il mentalismo della dottoressa Kate McCrae, che - secondo pratiche non troppo diverse da quelle adottate dai cavalieri Jedi - riesce a comunicare in forma telepatica con il robot Vincent, le battaglie tra uomini e robot, tra selve di raggi laser multicolor disegnati sulla pellicola, nei meandri dell’astronave (in primo piano le passerelle che si protendono su abissi vertiginosi, ancora in stile Star wars).
Totalmente improbabile dal punto di vista scientifico (siamo lontani anni luce dai paradossi spazio-temporali di Nolan), sostenuto da effetti speciali tutto sommato non malaccio anche se inevitabilmente invecchiati e da una sontuosa colonna sonora firmata da John Barry, davvero molto suggestiva.
In definitiva ancora guardabile, a tratti anche appassionante, anche se nel mio giudizio ammetto di essere inevitabilmente condizionato dal ricordo della mia prima visione di questo film: mi rivedo - con lacrimuccia - quattordicenne, esaltatissimo per la fantascienza, accompagnato dal papà, in trasferta nel supercinema cittadino delle grandi occasioni.
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