Regia di Babis Makridis vedi scheda film
Perdere un dolore. Perdere il vuoto che riempiva la vita.
Nostalgia di un dolore. Di un fedele compagno, che ci omaggia con la costante compassione della gente. Tanto meglio se la sofferenza resta quotidianamente ancorata ad un tormento sempre identico e senza fine, come l’angoscia provata davanti ad una situazione disperata ma stabile, dagli sviluppi del tutto sconosciuti. Un padre di famiglia è in pena per la giovane moglie, caduta in coma in seguito ad un incidente. Le sue giornate si trascinano tra pianti solitari, atti di una routine svuotata di gioia, tristi sguardi di partecipazione e piccole attenzioni da parte di amici, vicini, anche estranei. L’obiettivo congela la sua figura nella fredda e spoglia geometria di uno spazio la cui aria è la forma invisibile del tempo immobile, che induce a trattenere il respiro, perché ogni istante di ansia e sconforto è un concentrato di silenzio, di pensieri pesanti scanditi al rallentatore. I movimenti si fanno di pietra, come riti contemplativi privi di slancio, saldati all’immutabilità di una situazione senza sbocco. L’uomo si paralizza, rimirandosi di continuo nello specchio che il mondo circostante gli pone davanti: i suoi occhi cercano, e inevitabilmente incontrano, occhi intorbiditi dalla stessa nebbiosa cadenza, incastonati in volti altrettanto fissi e spenti. Il riflesso insistentemente uguale finisce per imporsi come una confortante certezza, un sicuro appiglio in una realtà priva di sfondo, derubata dell’animato e mutevole scenario dell’altro. Il personaggio ha perso il suo contraltare, la sua spalla, il paesaggio che completava il suo agire in una storia, diversa ogni giorno. Il libro ha smesso di essere sfogliato, la pagina non si cambia, e le parole, non trovando più posto, sono costrette a ripetersi, ad essere rilette daccapo. Sembra un dramma, ma non lo è. Non è una crisi, una fase di passaggio; è solo un approdo risolutivo, un luogo d’arresto così esteso e totalizzante da costituire un mondo intero, dentro cui è fin troppo facile vivere, senza aver alcunché da decidere, niente da aspettarsi. Vi sono comprese, in un formato comodamente essenziale, le due facce della vita, l’una rivolta ai sensi, l’altra all’intelletto, da un lato la concretezza della sistematica assenza, dall’altro l’astrattezza di un’incombente fine. Corpo e anima, presente e futuro sono placidamente saldati in un vacuo tutt’uno, che trasfigura l’opprimente cecità in una liberatoria visione del buio. La storia potrebbe durare così, per sempre. La vera tragedia è la sua interruzione, l’incantesimo spezzato dell’eterno riposo, dell’onnipresente cordoglio, la svolta che fa riprendere il consueto corso irregolare degli eventi, tanto imperfetti e futili. La ritrovata banalità non regge il confronto con la recente scoperta della sublime magia del nulla. Il punto di non ritorno è diventato il paradiso perduto, il divino equilibrio che urge recuperare, a costo di passare attraverso l’inferno. Questo è un racconto di estremi: quelli che, nel loro perverso gioco di reciproci rimbalzi, annientano, ognuno a suo modo, la informe medietà della persona umana. Quelli che scolorano o mettono a tacere la sua carne, oppure, al contrario, la tingono di sangue costringendola ad urlare. Il cinema greco, ancora una volta, ci propone – si direbbe con un manierismo iconico di stampo bizantino - l’individuo in una versione allegorica di pulsazioni primitive, di passioni animali, che lo accendono e lo spengono secondo le regole di una impietosa logica a due valori: impossibile stare nel mezzo, uscire dai contorni spessi un dito, navigando beati fra le sfumature.
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