Regia di Babis Makridis vedi scheda film
L'uomo che si compiaceva del proprio soffrire, che lo poneva al centro delle attenzioni "pietose" del suo prossimo, incrudelito dall'individualismo e dall'indifferenza.
Babis Macridis è il regista greco di questo lungometraggio, il secondo per lui.
Più giovane e perciò meno noto di Avranas o Lanthimos, i suoi conterranei e pestiferi colleghi, condivide con loro la predilezione per il racconto nerissimo e grottesco delle insensate contraddizioni in cui l’umanità si dibatte senza scampo: non per caso per entrambi i suoi film si è avvalso della sceneggiatura di Efthimis Filippou, storico sceneggiatore di Lanthimos, da Kynodontas a Il Sacrificio del cervo sacro.
Al centro del suo racconto è la pietà, come dice il titolo originale, Pity, complesso sentimento strettamente legato alla compassione, che presuppone una partecipazione emotiva al dolore altrui, ovvero una disponibilità a soffrire insieme a chi soffre. Il guaio è che pietà e compassione si sono dileguate dalle società occidentali che hanno cancellato il dolore e la morte (roba da perdenti) e di conseguenza è svanito il rispetto per la sofferenza altrui ridotta, neppur sempre, all’ipocrisia convenzionale del bon ton.
Accade dunque al nostro protagonista senza nome (interpretato da Yannis Drakoupolos) affermato avvocato, di vivere nell’attesa della morte di sua moglie (Evi Saoulidou), da tempo in coma irreversibile, vittima di un imprevedibile incidente, che l’aveva distrutta ancor giovane, lasciandolo nella tristezza con un vivace figlioletto e una cagnetta affettuosa. L’apparente mobilitazione solidale della vicina di casa, di un vecchio amico e dei premurosi e non disinteressati commercianti crea una rete protettiva fittizia ma confortevole intorno a lui e al bambino, inevitabilmente destinata a lacerarsi quando, inatteso, arriva il miracolo: la povera donna torna alla vita.
Un vero peccato, per lui, che ormai viveva così bene, nella sua maschera di uomo dolente e triste, da non volersene separare, a costo di creare artificialmente le condizioni per continuare a suscitare la compunta pietà del suo prossimo che lo faceva star bene e che dava senso alla propria vita. Con cura agghiacciante e meticolosa egli, dunque, avrebbe eliminato a uno a uno gli affetti della vita che ora, nella quotidiana ritrovata normalità, gli impedivano di sentirsi al centro dell’attenzione degli altri. Il finale riserva una ironica e tenera sorpresa!
Le dichiarazioni del regista, sottolineando l’ammirazione per l’umorismo graffiante di Jacques Tati, nonché per l’impassibilità misteriosa di Buster Keaton, costituiscono un importante viatico, per l’interpretazione di questo film che è tra i più disturbanti. Attraverso l’abile costruzione del progressivo slittare del protagonista verso i tortuosi percorsi di un inquietante e distruttivo nihilismo, Makridis comunica la sua critica corrosiva dei rapporti sociali e della loro disumanità. Egli utilizza, a questo scopo, un attore bravissimo nella sua allucinata e immobile fissità, che diventa il grottesco emblema dell’uomo senza passioni e senza desideri, che, pur in presenza del limpido paesaggio ellenico, non sa trarne pace e armonia, ma anzi volontariamente ne cancella i colori e ogni bellezza.
“Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell’onda.
(Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 14-18)
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