Regia di Scott Hicks vedi scheda film
Per almeno due terzi, la cinebiografia del virtuoso David Helfgott non brilla certo per particolare originalità. Corretta, diligente, seguibilissima. La consulenza diretta del protagonista si sente. Non che sia un male, ben inteso. Però è come se si riduca ad un’agiografia in cui – a parte il personaggio del padre (un gigantesco Armin Mueller-Stahl, malservito del copione), quintessenza dell’ambiguità contraddittoria che solo un genitore totalizzante sa esercitare – tutto si manicheizza senza farsi troppi problemi. La convenzionale storia di questo talento dilagante che a poco a poco entra nel buco nero della follia si snoda attraverso passaggi esemplari (su tutti l’incontro con lo storico maestro di pianoforte Cecil Parkers interpretato da quella leggenda di John Gielgud), in cui prima il febbrile Noah Taylor e poi l’istrionico Geoffrey Rush (un tantino esagerato l’Oscar, meritato se non altro per le incredibili doti musicali acquisite per l’occasione) danno prova di mimetismo e coinvolgimento empatici e sinceri. Il film spicca il volo quando entra in scena Lynn Redgrave nei panni della matura astrologa che diventerà la moglie di David: l’ingresso del motivo sentimentale all’interno dell’economia filmica non gli fa che bene e lo caratterizza con tenerezza e delicatezza. Momento topico: l’esecuzione, passionale e scatenata, con crollo finale (e inizio dell’autodistruzione) dell’impossibile concerto n. 3 di Rachmaninov, con cui il giovane Parkers aveva fatto emozionare lo stesso Rach.
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