Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Un grande film contro l’educazione tradizionale, quella autoritaria. Come è noto, il grosso del merito sta nel soggetto, l’autobiografia di Gavino Ledda, che nel ’75, a soli 37 anni, narra della propria vita, che aveva già tutto per essere definita intensa e straordinaria, in ogni senso, nel bene e nel male (quest’ultimo subito in modo atroce).
Opera dunque sessantottina (si era nel ’77, due anni dopo la pubblicazione del libro), come mostrato anche dagli eccessi del nazionalismo militarista di destra, ma anche crudamente realista: un verismo che serve come denuncia a suo modo illuminista, tesa a smascherare facili miti su primitivismo e natura.
Qui si vede il bene della civilizzazione. La quale di certo non ha portato solo bene, però: è interessante il parallelo con una visione opposta, come quella dell’ugualmente magnifico “L’ultimo pastore” di Bonfanti del ’12. Civiltà, dicevamo, che strappa all’ignoranza, come alle violenze domestiche coperte dall’omertà e dalla paura. Tutto quel fondo arcaico di male e di sopraffazione, morale e fisica, che richiede il correttivo della cultura, contro ogni lacuna di conoscenza. Una conoscenza che è la sola arma per denunciare gli errori della realtà, e cercare le possibili strade migliorative. Indimenticabile è la scena in cui il padre strappa il figlio dalla istruzione obbligatoria: la scuola come presidio contro l’illegalità e l’abuso ha qui uno dei suoi manifesti (sperando che sia sempre all’altezza di questo compito istituzionale, che è ancora acutamente sentito in Italia, specie al sud). Il padre ripete una requisitoria in passato ricorrente contro lo stato e la scuola: quella di sottrarre i figli, che invece devono contribuire al mantenimento familiare con il loro lavoro (specie i primogeniti). Quest’ultima, assieme a tante idee di stampo religioso (di cui labile appare il fondamento, come collaborazione all’opera creazionistica che Dio edifica attraverso la natura), sono state le due grandi ragioni che hanno favorito la concezione della procreazione come dovere buono incondizionato, assieme al mito nazionalistico della potenza come numero (oltre a questi tre errori, ci sono ovviamente tante ragioni in favore della procreazione; ma purtroppo anche quelle tre hanno avuto il loro rilevantissimo peso).
Le proteste, sacrosante dei bambini, impediti al gioco e alla spensieratezza e a un vero amore familiare, sono corone di un rosario della più triste e cupa disumanità affettiva, in cui i figli (peggio ancora le femmine) sono stati sovente cresciuti. Dove per sovente, si intende qualche miliardo di casi, indubbiamente la maggioranza nella storia. E la pedagogia è cambiata solo, faticosamente, dall’800, mentre prima (il lasso, certamente maggioritario, da Neanderthal a pochi decenni fa, e ad oggi nelle popolazioni più arretrate del mondo, che ne costituiscono ben più della metà), è rimasta in mano a degli aguzzini, se non si era fortunati. I quali sono tali nei confronti dei loro figli, niente meno. Il che produce, nei padri-carnefici come nei figli-vittime (casi purtroppo accaduti di frequente) terrificanti scissioni emotive, capaci di condurre a una robusta psicopatia, in entrambi i casi. Splendida è l’alternanza, che la psicologia mostra come reale, tra l’inevitabile senso di attaccamento verso i genitori, presente in qualunque caso, e l’odio più distruttivo verso di essi, quando abbiano interpretato malissimo il loro ruolo, creando disastri, pur magari con le migliori intenzioni, a partire dalle proprie competenze di base (e anche questo è un valido argomento contro l’intellettualismo etico). Ma alla base del genitore carceriere sta una superbia incontrollata. Che spesso è però alimentata dalla reazione rispetto all’ingiustizia a propria volta subita: «Ora sapete solo comandare solo perché ieri sapevate solo ubbidire», giustamente il figlio rimprovera al padre. Ciò che frena i figli, se non sono sostenuti da una robusta e adeguata cornice statale legale di prevenzione degli abusi, è anche la loro stessa sofferenza, quando questa trova un proprio alleato nel non poter essere liberi di denunciare un padre, anche per comprensibili motivi di rispettabilità pubblica, di evitamento della vergogna sociale, oltre che per l’inevitabile già citato attaccamento.
L’isolamento, della vita nella natura, è visto per la sua dimensione terribile, di alienazione (non c’è solo questo nel rapporto con la natura, come dimostra anche il film “Ubris” dello stesso Ledda; ma in tanti casi ciò è accaduto forzatamente): non c’è nessuna umanità in esso, ma solo violenza. Bruttissimo è il rapporto che il bambino sfruttato non può che instaurare con gli animali. Le scene di sesso con le bestie sono tra le più memorabili perché raccapriccianti, ma indicano bene una solitudine coatta. Una solitudine che è prigione, e che non può che far germinare i suoi esiti psicotici, compresi quelli autolesionistici, ben lasciati balenare dal film.
Ottima è la fotografia, e i fratelli Taviani imbandiscono bene questa resa cinematografica (che avrebbe però potuto essere più snella, nonostante l’ora e 46 non sia ingombrante di primo acchito), che deve comunque la sua gran parte al testo di partenza.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta