Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Gavino Ledda, rimasto analfabeta fino alla maggiore età e poi diventato glottologo, introduce e conclude il film che racconta la sua vita. Lo si può dividere in tre parti: un’infanzia negata, una giovinezza consapevole e una maturità ribelle. A sei anni, il padre lo toglie dalla prima classe elementare e lo manda a custodire le pecore in montagna: è un periodo di tremenda solitudine e di soprusi quotidiani che si traducono in abitudine (nasce così il riflesso pavloviano di chinare la testa quando il padre alza la mano, anche solo per togliersi il cappello). L’età adulta parte dall’incontro con due suonatori di fisarmonica: la scoperta della bellezza coincide con la prima disobbedienza al padre, che comincia ad apparire non tanto un tiranno terribile quanto un omuncolo meschino. L’emancipazione è segnata dal servizio militare, prima occasione per lasciare la Sardegna dopo un tentativo abortito di emigrare in Germania: è l’epoca in cui la conquista delle parole procede di pari passo con la conquista della libertà. Gavino si è evoluto, ma suo padre è rimasto sempre lo stesso: continua a trattarlo come un oggetto, al più come un servo, senza nessun riguardo per le sue aspirazioni. Si arriva così allo scontro diretto, alla partenza e alla decisione di rompere il circolo vizioso per cui “voi patriarchi avete fatto solo due cose nella vita: ubbidito prima e comandato dopo”: Gavino rifiuta di esercitare quel potere che fino allora aveva subito. Una parabola esemplare, che potrebbe sembrare didascalica se non fosse vera, solo leggermente appesantita da certi vezzi formali targati anni ’70 dai quali i Taviani non si libereranno mai del tutto.
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