Regia di Crystal Moselle vedi scheda film
Prassi collaudate e smarcamenti autentici, carreggiate riconoscibili e indirizzi distintivi. Ogni storia, per quanto accostabile a molte altre per tematiche e conformazione, può essere raccontata in una quantità indefinita di modi dissimili. Tante volte bastano un elemento disallineato, un punto di vista fuori dal coro o uno spartiacque affrontato con una tenace personalità, per individuare un karma autonomo, conquistarsi uno spazio indipendente e infine trasmettere sensazioni che, per quanto risultino complessivamente comuni, sono rimodellate a immagine e somiglianza della specifica contingenza.
Ebbene, Skate kitchen conta su un posizionamento e un flusso inusuali per predisporre e sviluppare una vicenda tipicamente adolescenziale, calandosi nei gangli del contesto designato scansando di netto gli artifici che correggono il tiro e cogliendo quegli scampoli di vita che fanno la differenza, dettando la direzione saliente.
Camille (Rachelle Vinberg - Betty) è una ragazza solitaria che non abbandona mai il suo amato skateboard, neanche quando sua madre Renata (Elizabeth Rodriguez – Logan, Miami Vice) glielo impone.
Dunque, per non rinunciare all’unica attività che la rende felice, decide di spostarsi altrove per coltivare la sua passione, conoscendo un gruppo di coetanee, tra cui figurano Janay (Dede Lovelace), Kurt (Nina Moran) e Ruby (Kabrina Adams), con le quali stringe una sincera e totalizzante amicizia, tanto da trasferirsi da una di loro e trovarsi un lavoro che le consenta di mantenersi.
I rapporti tra le ragazze cominciano a mutare quando Camille conosce Devon (Jaden Smith – La ricerca della felicità, The karate kid - La leggenda continua), con cui condivide fette sempre più consistenti del suo tempo libero finendo per innamorarsene.
Sprovvista dell’esperienza necessaria per valutare quanto sta accadendo, finirà per ritrovarsi a dover fare scelte fondamentali che decifreranno il suo prossimo futuro.
Con Skate kitchen, la regista Crystal Moselle sfrutta la sua esperienza di documentarista (vedasi l’apprezzato The Wolfpack) per delineare un nitido racconto di formazione che assume decisioni dirimenti e sostenute con ineluttabile fedeltà alla causa.
Prima di tutto, irrompe in un microcosmo usualmente destinato a essere presidiato dai maschi (dagli anni ottanta di California skate ai settanta di Lords of Dogtown) declinandolo al femminile attraverso un linguaggio di strada e a un punto di osservazione perennemente collocato a distanza ravvicinata, che regala un’ammirevole dote di intimità e un considerevole senso di appartenenza.
Da questi squarci e scarti dirimenti, scaturiscono inviolabili regole d’ingaggio utilizzate per descrivere e irrorare una spaziatura scandita dall’amicizia, dalle trasformazioni in atto in un periodo di passaggio che tende ad amplificare – nella gioia e nelle difficoltà – ogni avvenimento, dalle pulsioni che non si possono contenere e mitigare, il tutto circondato da copiose sequenze dedicate allo skate, dislocate - a turno - di giorno e di notte.
Una bolla temporanea che isola le protagoniste da tutto il resto, stabilendo un recinto deciso tra il dentro e il fuori, ispezionata a briglia sciolta con l’intenzione – soddisfatta - di agguantare l’attimo, coltivando il diritto alla felicità e di sbagliare, con spalle su cui appoggiarsi per (quasi) ogni evenienza mentre l’attenzione è riversata nella complessa ricerca di se stessi.
In buona sostanza, Skate kitchen si emancipa da una narrazione di stampo tradizionale pur avendo di base coordinate usuali. Possiede diversi punti di rugiada, bighellona tra strade e stanze di appartamenti, esibizioni e confessioni, attecchendo grazie alla sua spiccata naturalezza, che incardina scanalature da conservare.
Tra amicizia e amore, lividi e abbracci, acrobazie e capitomboli, carezze e malintesi, conquiste e delusioni, frizioni e riconciliazioni.
Aderente e spontaneo.
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